=CRISI, DISOCCUPAZIONE E IMPRESE “ALTROVE”= di Guglielmo Forges Davanzati * Stampa
Scritto da Redazione   
Domenica 05 Giugno 2011 23:23

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La riproduzione capitalistica nelle aree più sviluppate a spese del Sud del mondo

 

La crisi in corso, con i suoi effetti di propagazione nell’area Euro, ha posto in secondo piano, nell’agenda di politica economica, il problema del sottosviluppo, che – si badi – riguarda circa 3 miliardi di individui, a fronte di una popolazione mondiale di circa 6 miliardi di persone, e che – in un’economia ‘globalizzata’ – la questione riguarda anche per i Paesi più ricchi del pianeta, Italia inclusa. E’ opinione diffusa che l’integrazione commerciale Nord-Sud riduce le disuguaglianze salariali nei paesi in via di sviluppo (PVS) nei quali è ampia la disponibilità di lavoro non qualificato. Ciò dovrebbe accadere perché, in regime di libero scambio, ciascun Paese trova conveniente specializzarsi nella produzione (ed esportazione) di beni ad alto contenuto del fattore produttivo del quale dispone con maggiore abbondanza, ottenendo vantaggi dallo scambio con i Paesi più ricchi. Ciò significa che, essendo i PVS prevalentemente produttori di beni agricoli e materie prime, specializzandosi in queste produzioni ed esportandole, otterrebbero in cambio prodotti a più alto contenuto tecnologico da parte dei Paesi industrializzati, in un gioco che va a beneficio di tutti. Il corollario di questa impostazione è la tendenza alla convergenza, in termini di PIL procapite e di salari, fra aree povere e aree ricche del pianeta. 

 

L’evidenza empirica mostra tuttavia l’esatto contrario. Le disuguaglianze salariali sono infatti aumentate anche nella generalità dei PVS e in particolare in quelli (ad esempio, il Messico) che hanno sperimentato la maggiore liberalizzazione commerciale in anni recenti. Ciò sembra dovuto innanzitutto al fatto che i rapporti commerciali su scala internazionale, e soprattutto quelli fra Paesi industrializzati e PVS, non si svolgono in regime di parità dei poteri contrattuali e che, dunque, essi si configurano soprattutto come rapporti di potere e di dominazione, anche in assenza della dimensione formale del colonialismo. In tal senso, occorrerebbe innanzitutto prendere in considerazione le ragioni di convenienza che possono spingere i Paesi ricchi a effettuare scambi commerciali con i PVS. Si consideri innanzitutto che i Paesi poveri possono contare solo sul 3% del totale degli introiti commerciali mondiali, a fronte di una quota pari al 75% spettante ai Paesi dell’area OCSE, nei quali vive solo il 14% della popolazione mondiale. Si tratta, in altri termini, di un dispositivo che genera una perdita di circa 100 miliardi di dollari a danno dei Paesi poveri. A ciò va aggiunto che le tariffe sui beni che vengono importati dai paesi in via di sviluppo sono in media 4-5 volte più alte di quelle praticate tra i paesi sviluppati.

Si noti che una crescita accelerata dei PVS genererebbe, da un lato, una riduzione dei flussi migratori e, dall’altro, un aumento dei consumi interni che renderebbe sempre meno sostenibile, sul piano ambientale, l’attuale modello di sviluppo. Per quanto riguarda il primo aspetto, e con riferimento all’Italia, occorre rilevare che, sulla base delle ultime rilevazioni della Caritas, gli immigrati regolari in Italia ammontano a circa quattro milioni, così che l’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti si assesta intorno al 7%. I flussi migratori, nella gran parte dei casi, vengono agevolmente assorbiti dalle imprese italiane, dal momento che, esprimendo domanda di lavoro non qualificato, hanno maggiore convenienza ad assumere lavoratori provenienti dal Sud del mondo, che peraltro esprimono rivendicazioni – in termini di salari e di diritti – di gran lunga inferiori a quelle espresse dai lavoratori italiani.

 

Stando così le cose, non sussistono motivazioni stringenti da parte del sistema delle imprese dei Paesi ricchi a trasferire risorse al Sud del mondo. Per quanto attiene al secondo aspetto, anche nel breve periodo, l’aumento dei consumi nei PVS non sarebbe desiderabile per la realizzazione dei profitti delle imprese, dal momento che, essendo i loro prodotti lì difficilmente sostituibili, i profitti vengono realizzati soprattutto mediante aumenti dei prezzi, non mediante l’espansione della produzione. Il che comprime ulteriormente i salari reali e la domanda in quelle aree. Domanda che viene tenuta relativamente alta soprattutto attraverso gli ‘aiuti’ che i Paesi ricchi concedono ai PVS. In quest’ottica, la cooperazione allo sviluppo non sembra essere finalizzata principalmente a contrastare la povertà nei Paesi destinatari, e, dunque, non sembra rispondere a criteri di solidarietà, sebbene non si possa negare che chi vi opera è effettivamente mosso da obiettivi altruistici.

 

 Di fatto, le politiche di cooperazione allo sviluppo messe in atto negli trascorsi decenni, salvo casi del tutto eccezionali, non hanno prodotto risultati apprezzabili per i Paesi destinatari. Più spesso, hanno rafforzato le relazioni ‘cooperative’ fra le élite dei PVS e le élite dei Paesi ricchi, fondate su trasferimenti monetari in larga misura a vantaggio dei primi in cambio di una legislazione favorevole alle imprese estere. Si tratta di un accordo implicito che consente di mantenere bassi i salari in quelle aree per rendere più profittevoli le delocalizzazioni. Sono ormai numerosissimi e in crescita i casi di delocalizzazioni, resi possibili da queste strategie. Da ultimo, il piano FIAT per il trasferimento di parti della produzione da Pomigliano e il contestuale aumento dell’orario di lavoro dei dipendenti campani (con una settimana lavorativa di sei giorni, su tre turni giornalieri di otto ore, con possibilità di estendere gli straordinari fino a 80 ore a testa), e le vicende recenti del TAC salentino. E’ proprio attraverso questi canali che le imprese riescono a ottenere profitti, con un duplice esito di segno negativo: si riduce l’occupazione in loco e non si pongono le basi per uno sviluppo autonomo dei Paesi poveri. L’intensificarsi della concorrenza in regime di crisi aggrava il problema. La caduta della domanda globale spinge, infatti, le imprese (soprattutto quelle in grado di spostarsi più agevolmente su scala internazionale) a posizionare i propri impianti, o parti significative di questi, in aree nelle quali sono più bassi i salari, è più favorevole il trattamento fiscale, sussistono minori vincoli legislativi in merito all’impiego della forza-lavoro e all’inquinamento ambientale. In questo scenario, si può ritenere che il sottosviluppo sia in larga misura funzionale alla riproduzione capitalistica nelle aree più sviluppate e che, per questa via, gli squilibri Nord-Sud siano inevitabilmente destinati ad acuirsi.

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 * Università del Salento 

Ultimo aggiornamento Lunedì 13 Giugno 2011 17:48
 
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