=LA SCELTA DI MAGRI E L'ERRORE DI GIUDICARE= Stampa
Scritto da Redazione   
Sabato 10 Dicembre 2011 22:51

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di Tony Tundo
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La scomparsa di Lucio Magri impone una riflessione sulla morte rispettosa dei tempi e dei modi che egli ha scelto per porre fine alla sua vita.

Non ho competenza né mi interessano gli aspetti medico-legali, non so a quali condizioni il cosiddetto suicidio assistito sia consentito. Una formula amministrativo-burocratica che non mi piace e che, soprattutto, mi fa pensare ai poveri disgraziati che si uccidono col gas perché non hanno né denaro né medici amici né notorietà ma la stessa disperazione. Il pensiero ai più deboli non diminuisce il rispetto per la decisione di Magri, naturalmente. Questo m’interessa: la decisione drammatica di accelerare la morte. La materia, spinosa e angosciante, è più adatta ad antropologi, sociologi, giuristi, medici, filosofi, religiosi. La mia è un’opinione libera da schemi ideologici, certamente opinabile e frutto di esperienza personale, come è nel vissuto di ogni persona comune. Quello della morte è il maggior tabù della modernità, l’uomo di oggi tende a deresponsabilizzarsi, soffre di una sorta di sindrome di onnipotenza e, se non di eternità, almeno di eterna giovinezza sì da temere un confronto con temi problematici che lo inchiodino a un’assunzione di responsabilità. La morte, invece, buona o cattiva e dura che sia, è la prospettiva ultima della vita. Occuparcene come di quanto più ci appartiene è dare un senso compiuto all’esistenza. Personalmente ho avvertito un potente j’accuse nel gesto estremo di Monicelli e così come ha segnato e occupato il mio pensiero - durante gli studi giovanili, in particolare - il suicidio di Pavese (sembra che Magri abbia chiesto agli amici di non “fare troppi pettegolezzi”: le stesse parole scritte sulla prima pagina de “La luna e i falò” trovato nell’albergo di Torino dove nel ’50 Pavese si tolse la vita).

Ma anche la morte “naturale” di Sanguineti mi ha fatto pensare ed è da questo punto che parte la mia riflessione. Sanguineti pochi giorni prima di morire aveva scritto un breve saggio dal titolo ”Non ho ancora giudicato utile il morire”. Nella sua analisi egli aveva sviluppato, con la consueta attitudine a storicizzare miti e cultura, l’idea di morte: “siamo di fronte al trasformarsi di quello che era un modello di morte rurale, in un sistema sociale con gruppi familiari molto compatti, legati alla terra, presso i quali nascite, matrimoni e sepolture erano le grandi occasioni di feste rituali […] . Oggi tutto questo è scomparso, anche il funerale diventa abbastanza sbrigativo. Anche la morte è una merce”. E aggiungeva: “paradossalmente si assiste oggi a un contrasto, la società mediatica dà grandissimo spazio al fenomeno della morte, e della morte violenta, nei suoi aspetti più crudi e censura, invece, la morte come esperienza reale, quotidiana, sia nell’ambito dell’assistere alla morte, sia in quello della consapevolezza del ‘si deve morire’. Unire l’esperienza della vita con quella della morte diventa il simbolo di una vita che è veramente condotta e misurata in rapporto a una certa idea di morte”. Egli, dunque, sentiva di avere ancora un potenziale d’amore da spendere per la vita intesa nella sua pienezza, nelle relazioni, nell’impegno, nella gioia di vivere tout court. Un destino beffardo il suo! Derivo da Sanguineti la necessità di ripartire da una riflessione sul senso della vita e della morte per sottrarci a giudizi frettolosi condizionati dai cori vocianti, ma non pensanti, e che non ci competono affatto.

La vita è amore per l’altro,  percorso verso l’altro, missione, oserei dire trascendenza, nel senso di superamento di sé, in senso anche laico, con la finalità di un progetto di socialità, di costruzione di una rete di affetti. Questa è la sua dimensione spirituale, che comporta un atteggiamento dinamico; venendo meno le condizioni  per tendere a questa finalità,  quale senso ha l’inerzia di un corpo straziato e piagato? Dice Seneca a Lucilio: “Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male” [...] “La vita devi anche renderla accetta agli altri, la morte solo a te stesso: la migliore è quella che preferisci”. Insomma vivi insieme agli altri e ciò ti obbliga all’esercizio dei tuoi doveri e al rispetto dei diritti altrui, la morte – al contrario -  appartiene solo a te, è un fatto personalissimo. E sbeffeggiava Seneca quel tale che, gettato in una gabbia e nutrito come le bestie, a chi gli suggeriva di rifiutare di cibarsi in segno di protesta rispose: “Finché c’è vita, c’è speranza”. Questo aneddoto-metafora fa maggiore chiarezza: credo che nel paradigma della sacralità della morte debbano accogliersi anche la sacralità della dignità e quella della libertà. Certo anche la dignità è un sentire personale e perciò ha molte variabili, la libertà invece è un concetto assoluto. A chi sostenga che non si debba far violenza alla propria vita e che bisogna aspettare la fine naturale risponderei senz’altro che la libertà individuale è il principio dirimente. La libertà di scegliere fra quantità e qualità, perfino di prendere la via più facile e sottrarsi al tormento di cure palliative, se la meta è stabilita, la libertà di rinunciare al supremo sacrificio di mascherare il dolore per difendere dal dolore chi ami, la libertà di non aver restituita l’amara sensazione della commiserazione. Ho visto persone, anche gioiosamente e profondamente religiose, che nella fase terminale della malattia evitavano lo sguardo dei cari per non leggervi dentro l’imminenza della fine: quale strazio maggiore? Ma anch’io ho bisogno dell’orpello della religione per tacitare i sensi di colpa, naturale retaggio dell’educazione cattolica, e mi conforta non aver trovato nel Vangelo una condanna senza appello del suicidio.

Se nessuna “cosa creata” può separare un cristiano dall’amore di Dio, anche un cristiano che si suicida è una “cosa creata”.

Ultimo aggiornamento Domenica 11 Dicembre 2011 20:13
 
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