=Rivisitazioni. ELEONORA FONSECA PIMENTEL il faut cultiver notre jardin Stampa
Scritto da Redazione   
Martedì 06 Marzo 2012 13:50

eleonora

 

 

 

Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo

 

 

di Tony Tundo

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"Forsan et haec olim meminisse juvabit" (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo). Eleonora Fonseca Pimentel, intellettuale e patriota, tragica protagonista della Repubblica napoletana del ‘99, prima di salire sul patibolo, pronunciò questo famoso verso di Virgilio. Poi il suo corpo fu esposto al ludibrio del  popolo canaglia, in seguito misteriosamente scomparve quando la chiesa, Santa Maria di Costantinopoli, che lo custodiva insieme a quelli dei compagni uniti dallo stesso destino fu demolita.

La storia di Eleonora è nel romanzo Il resto di niente di Enzo Striano, ed. Loffredo-Napoli,1986.

Càpitano delle esperienze di lettura che ti catturano sicché vorresti condividere l’esperienza, discuterne; a chi ama essere sedotto dalla scrittura sono rivolte queste righe. Si tratta di un capolavoro assoluto che la critica ha colpevolmente trascurato. Così le ragioni di un invito alla lettura o alla rilettura di questo classico sono di almeno due ordini di motivi. Il primo è che ogni classico, alla rilettura, si scopre inedito, nuovo e inaspettato perché sono mutate le prospettive storiche; il secondo - credo il più importante -  è che, si  parva licet  componere magnis, l’opera di Striano va annoverata tra i romanzi storici del Novecento accanto ai più grandi, ai russi, ai tedeschi, ai francesi e, naturalmente non ultimo, all’esponente per eccellenza del romanzo storico, Alessandro Manzoni. Striano è forse l’epigono perché la stagione del romanzo d’autore  in Italia si è spenta con Italo Calvino, a parer mio.  Invece si è voluto farne un autore di nicchia che ha scritto un’opera di nicchia,  un modo francamente ipocrita di marginalizzare un autore per ragioni mercantili e politiche. Striano seppe “monetizzare” l’esclusione quasi fosse una zona franca che gli garantisse quella libertà di dissenso che gli permise nel ‘56 di lasciare il quotidiano L’Unità e il P.C.I. per i fatti d’Ungheria; e non è poco.

Si diceva, si tratta di un romanzo storico se proprio si deve orientare il giudizio senza riuscire a prescindere da categorie e correnti (Leopardi fu forse un ortodosso romantico?). Sì, è romanzo storico e molto altro: è romanzo di formazione, c’è il bozzettismo naturalistico, c’è l’influenza dello Sturm und Drang, c’è il monologo interiore, ovunque nello scorrere delle pagine ci si imbatte in quell’insoddisfatta tensione verso la libertà che va chiamata come i tedeschi la chiamano Sehnsucht: le ragioni della semantica…E c’è uno straordinario plurilinguismo di matrice dantesca, una capacità mimetica della lingua assolutamente affascinante e scevra da compiacimenti oleografici capace di disvelare - quasi con la tecnica pittorica di un affresco - la realtà storico-sociale di un’epoca di disordine storico, quella Babele che era Napoli nel ‘700: lo spagnolo dei Borboni, il tedesco di Maria Carolina, il portoghese di Eleonora, il francese dei philosophes imbastardito dagli intellettuali napoletani filofrancesi, poi l’inglese quando era Nelson, erano gli inglesi i nuovi padroni, infine il dialetto napoletano, un’altra lingua. Plurilinguismo dunque e pluridiscorsivismo perché le vicende umane, intellettuali e politiche di  Eleonora si intessono con la realtà dei popolo dei bassi; i punti di vista si intersecano perché la tragedia della rivoluzione giacobina napoletana possa avere pieno risalto e Striano è abilissimo a dar voce al popolo attraverso il colore e, direi, l’anima del dialetto.  Il resto di niente è insieme vicenda umana  e storica di una pasionaria e vicenda di una pagina di storia nostra nazionale, soprattutto meridionale e pugliese perché non vanno dimenticate le efferatezze dei saccheggi dei sanfedisti a Gravina, ad Altamura; storia esemplare di un fallimento annunciato. Se si volessero distinguere l’una dall’altra si farebbe torto all’una e all’altra, e a un autore capace di una narrazione intensa, vivida, dolorosa e assolutamente organica. Sono due piani narrativi che si interfacciano, quello della storia e quello della biografia romanzata, lo dice in una nota lo stesso autore: il mio è un romanzo storico, tutti i romanzi sono storici e tutti sono sperimentali. L’opera non aggiunge un nuovo tassello, né dà una diversa chiave interpretativa delle ragioni del fallimento dell’unica rivoluzione che avrebbe potuto dare un altro destino al Meridione e forse all’Italia (i tempi erano certo più maturi di quelli dei Ciompi e di Masaniello) alla ricostruzione storica di Vincenzo Cuoco; al contrario si ha l’impressione che gli occhi di Eleonora vedano attraverso quelli di Cuoco e poi Striano veda attraverso quelli di lei. Lo stesso titolo Il resto di niente dà la misura della consapevolezza della vanità di ogni sforzo eroico che attraversa l’esperienza di Lenòr (il nome portoghese con cui la chiamavano in casa) ancora adolescente, promettente poetessa: Che cosa resterà di tanto tribolare, di me? Nulla di nulla. Nada de nada, il resto di niente! Lei sapeva che era proprio vero quello che diceva Cuoco: A Napoli la rivoluzione pochi la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la desidera. E se nessuno la desiderava, diventava incomprensibile, Mito, Moda. Può una rivoluzione voluta da principesse e intellettuali piacere al popolo, la cui parte superiore ha venduto le sue opinioni a uno straniero? Le rivoluzioni non si esportano! Perché la lezione della storia è rimasta sempre inascoltata? Se ne ricorderà tante volte Eleonora nel farsi dell’epilogo tragico, quando dalle pagine del Monitore napoletano lancerà accorati appelli al popolo, l’ultimo del 9 marzo del ’99. Se ne vendevano pochissime copie, del primo numero solo 37: per chi scriviamo, se chi è interessato non sa leggere? Quanta nostalgia delle lunghe conversazioni - sulla linea tracciata da Filangieri e Genovesi - con i “moderati inutili” Cirillo, Sanges, Pagano, Caracciolo, Jeròcades (uno dei giuda che tradirono, poi, la causa) e, per l’appunto, quel giovane molisano, intelligentissimo, pelle olivagna, Vincenzo Cuoco, che  sapeva con certezza che si sarebbe trattato di una rivoluzione passiva. Lui affermava che i processi di cambiamento nascono dall’interazione di molteplici fattori, interessi, passioni condivise, essi rivestono un peso maggiore dell’astratta ragione. Il segreto delle rivoluzioni riuscite è conoscere ciò che il popolo vuole, e farlo. Una rivoluzione indotta e favorita dal successo di un’altra rivoluzione, dall’intervento di un esercito straniero fallirà, perché la rivoluzione deve scaturire dall’autonoma crescita di un movimento indigeno. Il “voto di tutti” guardava a obiettivi di buon governo e all’eversione della feudalità, invece i patrioti napoletani sul modello francese introdussero dapprima l’abolizione de’ culti, la libertà delle opinioni, l’esenzione de’ pregiudizi. Niente di tutto questo allora poteva sollecitare il popolo che non era posto nelle condizioni di teorizzare, né si sarebbe mai mosso per raziocinio, per bisogno piuttosto. A Eleonora non sfuggivano le condizioni del popolo, ne aveva conoscenza diretta, penso alle figure di secondo piano nel romanzo - ma ogni sfumatura è utile ai chiaroscuri del ritratto di Striano - a quella tragica, e tenera nella sua ignoranza, della servetta Graziella convinta che prostituirsi fosse non solo il destino ma la fortuna stessa e che, malata di sifilide, tornò da lei, sola, già vecchia e sdentata a trent’anni. Da citoyenne della Repubblica e cospiratrice Eleonora ebbe solo due “contatti col popolo”. Le bastarono, e ne ebbe paura, paura di vedere vacillare la fermezza della sua idea di libertà. Con Lauberg e De Deo era andata a incontrare i lazzari, chiedevano loro  di ascoltarli “Simmo napolitani pure noi, simmo fratelli, lavoriamo per darvi la libertà”. E questa fu la risposta: “La libertà…Guagliu’. Lo cavaliere ‘nce vo’ da’ la libertà. Cavalie’, tu vuoi da’ la libertà a me? Tu si’ cchiù libero de me? Cavalie’, mo, te ‘mparo ‘na cosa: Napoli sai de chi è? Primma de San Gennaro, poi de lo rre, e poi è d’’a mia”.

Tu vuoi dare a me la libertà. Perché, credi di essere più libero di me? Già!

Lenòr il popolo lo conosceva dall’adolescenza per sensibilità e curiosità intellettuale e umana, amava impadronirsi di tutti i segnali, le persone, le abitudini che scandivano i ritmi della vita quotidiana, aveva tante volte passeggiato fino ai vicoli della città vecchia con l’amico fraterno Vincenzo Sanges. Aveva scoperto un’infinità di inverosimili mestieri: il latrinaro passava a pomeriggio inoltrato e al grido di ‘O Latrinàaaarooo i garzoni uscivano dai palazzi e confluivano verso la navazza stercoraria a svuotare pitali strabordanti, che emanavano un fetore ammorbante; seppe chi fossero le capère, solitamente donnone dalla chioma corvina che nelle vie attendevano, armate di bottigliette d’olio e fitte spazzole, clienti infestate dai pidocchi. Poi i saponari e verso il mare di ostricari ne contava a decine, infaticabili. La città era cadente, slarghi lutulenti, ovunque sudiciume, paglia lercia, stracci sporchi di sangue, carogne. Un terribile tanfo esalava dal terreno, dai buchi delle case, capanne sgretolate. A questo popolo si voleva dare la libertà di pensiero e non il lavoro, non il pane, non l’affrancamento dall’ignoranza! Almeno col Tanucci i nobili avevano denaro e avevano bisogno del lavoro del popolo, lui aveva fatto pagare le tasse al Clero, da quando c’erano i francesi non si capiva più niente. Lenòr, acuta e mite, aveva visto con molta chiarezza che lo iato profondo fra i due mondi era come saldato da un’attitudine comune alla volgarità, che albergava anche nell’animo di nobili e borghesi. Non solo l’aveva ben colta ma ne era stata schiacciata. Aveva accettato un marito, come era costume ai tempi, che le garantisse un titolo e benessere economico; la sua dolcezza le suggeriva, a dispetto delle prime avvisaglie della brutalità dei suoi modi, che col tempo avrebbe anche imparato ad amarlo quell’uomo. Non occorse molto tempo, bastò la prima notte di nozze: col lenzuolo macchiato di sangue brandito con orgoglio da un marito meschino e infame alla finestra, segno della illibatezza della sposa, usciva di scena Lenòr. Ora doveva essere Donna Eleonora Tria. La sventurata accettò anche questa umiliazione,  consuetudine oltraggiosa che ignorava. Ma il dramma continuò inesorabile, l’illusoria felicità di aver messo al mondo una sua creatura finirà dopo appena otto mesi: il piccolo sarà portato via dalla “grippe”, febbre catarrale, un’epidemia che stava falcidiando mezza Napoli, contagiato da quel padre che portava a casa tutte le sozzure dei bordelli. L’episodio, tragico in sé, è fondamentale perché porta Lenòr a lasciare l’uomo, che - pur ridotto sul lastrico da una vita di vizi - dovrà corrisponderle un sostegno economico. Era libera, ma sola:  un’altra vittoriosa sconfitta.

La chiave di lettura del romanzo di Striano è - credo -  nell’analogia fra questa vita di donna e la storia che si muove intorno a lei: trionfo e sconfitta - ossimoro fatale - coniugati insieme quasi che nessun trionfo raggiunto escluda la sconfitta subìta, anzi la sconfitta deve essere il prezzo da pagare per un pezzo di libertà.  Eleonora pensava, andando a morte, alle parole di Voltaire: il faut cultiver notre jardin, bisogna dunque continuare a coltivare il nostro giardino, ne nasceranno un giorno frutti e fiori, i bambini potranno mangiare. Se nessuno s’occupa del giardino, il mondo finisce. La stringente necessità!  Non conta null’altro. Nada de nada, il resto di niente. Furono dunque fierezza e ardore di libertà temperati ma non scalfiti da un latente nichilismo a guidarne le battaglie; è questo il volto più tragico, credo. Ardita nel pensiero e di grande delicatezza nei modi, non le era sfuggita, ancora giovane donna, l’arroganza chiassosa della nobiltà azzimata in giamberghe, parrucche, favoriti e calzonetti di seta, all’apertura della stagione del San Carlo: lazzi, espressioni triviali, gente che beveva nei palchi, vociava senza freno. La classe dirigente di Napoli! I pilastri sociali! E il Clero? Non era da meno. Lenòr si era formata in una famiglia aperta al nuovo, incoraggiata alle letture degli illuministi dal padre e dallo zio, l’amato Titìo, e lui ne era convinto “Troppa gente di Chiesa si occupa di cose che non le competono, dimenticando che il nostro Signore ha detto: Regnum meum non est de hoc mundo”. Non lo dimenticherà, i sanfedisti di Ruffo saranno i suoi carnefici. Non solo i sanfedisti: Ruffo aveva saputo coordinare i lazzari, è vero, ma ci era riuscito perché i giacobini non avevano saputo farlo.

Più avanti negli anni e nella storia le notizie che arrivavano, clandestine, dalla Francia circa i costumi della classe dirigente non erano più edificanti: Mirabeau, presidente della Costituente, era morto in un’orgia… Spesso a Napoli le capitava di incontrare liberali che avevano assunto un fare falso, sussiegoso, politico. Resistere alla tentazione dei sentimenti di giudizio, non lasciarsene condizionare: questo era l’impegno! Occorreva guidare, illuminare. A tutti i costi, anche al costo di un’altra - l’ultima - vittoriosa sconfitta. Le risuonavano nel cuore, calde e confortanti come preghiere, le parole della Dichiarazione americana: “[…] Che tutti gli uomini siano creati uguali e che essi siano dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà, la ricerca della felicità. Che vengano istituiti governi, i quali traggano i giusti poteri dal consenso dei governati. Che ogni qual volta una forma di governo divenga distruttrice di tali fini, il popolo ha il diritto di modificarla o di abolirla” [...] Washington, Jefferson, Franklin cosa avevano fatto se non mettere a frutto le idee dei philosophes, dimostrare che le idee devono farsi cose, fatti; che si può? Le idee, i fatti, le antiche discussioni così accese…: Nessuno di noi ha realizzato il bene proprio, allora ci occupiamo di quello altrui. E’ assai più facile. E comodo. La libertà deve essere intera, deve farti felice. Evocavano Atene, Sparta. L’Utopia! L’America ha avuto la fortuna di nascere senza storia, senza inceppi sociali, tutta libera subito.

Ma a Napoli l’albero della Libertà non aveva messo le radici, il terreno essendo incolto cosicché l’avventura rivoluzionaria era risultata - si è detto - esemplare per la sua astrattezza. Nessun frutto. Il resto di niente! Peggio: una Storia bloccata, irrisolta. Senza retorica, ci troviamo di fronte a un’opera di respiro universale, è necessario soltanto decontestualizzarla (non meno de I Viceré, non meno de Il Gattopardo che il podio dei grandi non hanno faticato a conquistarselo).  Di respiro universale almeno - io credo - per un’altra ragione: non c’è slum, favela, banlieu che non abbia dentro la monnezza fisica e morale dei bassi, e la pena; non c’è palazzo del potere che non abbia lo sfarzo prepotente e sfacciato di quelli della Napoli del ‘700, e l’ipocrisia.

Ultimo aggiornamento Martedì 06 Marzo 2012 21:28
 
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