=il libro. I DUE GIORGINI DI FAUSTO ROMANO= Stampa
Scritto da Redazione   
Giovedì 26 Dicembre 2013 13:13

                Grazie per aver viaggiato con noi

“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia”
 G. Gaber

di Tony Tundo

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La cifra stilistica del romanzo d’esordio di Fausto Romano è senza dubbio una gradevolissima combinazione ossimorica di leggerezza e profondità. A voler a tutti i costi catalogare ‘Grazie per aver viaggiato con noi’ (Lupo editore) in un genere letterario codificato si direbbe che il lettore vi può trovare i tòpoi del romanzo psicologico del ‘900 in chiave moderna. Echi di vite fagocitate dalla forma, snaturate dalla malattia della modernità, ricucite poi ago e filo dalla memoria involontaria e, infine, riabbracciate ne abbiamo incontrate (a citare appena qualche modello) nel teatro di Pirandello, nei migliori personaggi di Svevo,  che trovano nel flusso di coscienza un varco, una via di fuga dallo stritolamento subito dalla società con i suoi infingimenti, dalle trappole delle convenzioni. Ѐ questo il tema. Se Romano ha “rubato” l’ispirazione ai mostri sacri della narrativa del secolo breve è perché essi appartengono all’underground culturale di tutti, a loro si devono i riferimenti narrativi e le figure archetipiche patrimonio universale, ma la verve un po’ clownesca del giovane scrittore è il marchio di originalità così che la formula di scrittura risulta, per così dire, semiseria e l’ironico e il grottesco ne fanno un testo che ben si presta a una sceneggiatura teatrale,  una “commedia umana” in cui il protagonista è l’uomo in carriera dei nostri giorni, ingranaggio di un meccanismo infernale, che si scopre a un tratto persona, una storia con una conclusione aperta secondo i modi del “ teatro nel teatro”. E le  ragioni della metamorfosi sono nel caso, un  caso di serendipità: frequente, perfino quotidiano, non banale se gli si dà un senso. Il dottor Severini - protagonista centrale ma non assoluto del romanzo: gli altri, umani e non, essendo funzionali alla rinascita - ritrova l’essenza preziosa del tempo cercando spasmodicamente ben altro: un bagaglio smarrito, il suo trolley rosso,  l’urgenza di recuperarlo al prezzo della forzata attesa nell’aeroporto di Parigi di ritorno a Roma da un congresso negli States. Un contrattempo diventa così attraverso modalità e circostanze impreviste (incidenti e monologhi costituiscono l’ossatura del romanzo) una dimensione spazio-temporale in cui per la prima volta Giorgino Severini, moderno Leopold Bloom, può esplorare in un cono di luce chiarificatrice l’origine delle sue paure e della sua inettitudine ben mascherate nell’abito borghese di un medico di discreto successo. Con un percorso a-razionale Severini si libera della cappa borghese, fa del contrattempo spiacevole un’opportunità  e si lascia andare a ripercorrere tappe e rivedere volti che la sua vita hanno appena lambito, esperienze di incontri che, invece,  hanno lasciato il segno; a tratti,  e con una particolarissimo mix di ingenuo, umoristico e surreale,  si abbandona - complici il turbinio di voci intorno, l’affollarsi di volti estranei, le vite degli altri, perfino i manifesti pubblicitari osservati per la prima volta - a riflessioni sociologiche, lui che aveva affidato il compito di gestire il suo tempo alla segretaria, i rapporti sociali alla moglie, unico mantra l’efficienza. Nella vita artificiale di Severini, dove tutto è frenetica routine niente passione, irrompe - rivoluzionandola - la lentezza.

E'così che la perdita banale, ancorché fastidiosa, del bagaglio si fa momento rivelatore, epifania: poche ore (il tempo della storia) si dilatano (il tempo del racconto) per accogliere, finalmente senza paure e infingimenti,  tutto il senso della sua esistenza e sullo sfondo il ritratto, certamente casuale e perciò più suggestivo, di un microcosmo: la famiglia d’origine, il paese, il mondo scolastico, i primi turbamenti sessuali, la maturità, gli studi, la carriera fermamente voluta dalla moglie, le abitudini di una vita di coppia senza emozioni, la colf filippina e, tipica di  un’epoca ormai passata, la dipendenza dalla religione o - meglio - dalla educazione cattolica. Tutto assorbito passivamente, unica manifestazione del disagio - sin dall’infanzia - una costante incurabile iperidrosi. Come nella migliore tradizione narrativa del ‘900 la vicenda ha il suo momento di maggiore tensione - quello che si definisce con parola tedesca ‘spannung’- che porterà all’incontro decisivo con Giulia, all’epilogo inatteso. Il richiamo a uno straordinario personaggio delle novelle di Pirandello è, a mio parere, evidente: come per Belluca de “Il treno ha fischiato” l’epifania scatta da un episodio grottesco ma banale ed è rivelatrice del meccanismo stritolante della realtà, la follia rompe il meccanismo. Giorgino si ritroverà in questura - evidentemente  straniato -  fermato per atti vandalici, poi l’incontro con Giulia di origine italiana che lo aiuta con la lingua straniera: la gendarmerie française lo irrita perché non comprende il senso di quanto gli viene contestato. Non è un incontro d’amore, è di più: la dolcezza e il sorriso di Giulia lo liberano dal Giorgino precedente, l’automa, il calore di Giulia gli fa scoprire il calore del sole. Sarà quest’incontro a traghettarlo verso il luogo ameno della libertà, un’isola dove ogni cosa è parte dell’armonia, anche l’iperidrosi. Lingua e sintassi assecondano il flusso disordinato della coscienza fino a diventare, in questa sezione del libro, di più forte impatto con dialoghi serrati e un efficace gioco di climax: si prepara la rinascita. E l’epilogo è sorprendente. Non serve - al contrario guasterebbe il gusto  -  ricordare altri passaggi  del romanzo e personaggi che i due Giorgini - quello della storia e quello del racconto - incrociano nel loro percorso perché il fascino, e lo stupore, sono proprio nella naturalezza che mostra l’autore nel tracciare profili umani e raccontare sensazioni sicché - fra  momenti esilaranti e momenti commoventi -  la lettura deve prenderti  e  sorprenderti.

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Dalla biografia di Fausto Romano. F. Romano nasce a Galatina, nel Salento, A.D. 1988. Studia per otto anni pianoforte, per tre canto, danza per una settimana. Servendo messa scopre la vocazione per lo spettacolo. Dopo gli studi superiori, riesce a entrare nella prestigiosa Accademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Amico dove si diploma in recitazione nel 2012. Vive a Roma nel quartiere di San Lorenzo. Dalla finestra della sua stanza vede solo il raccordo anulare che lui definisce la sua “siepe leopardiana”.›› (Precisazione d’obbligo: il libro è stato pubblicato nel maggio scorso prima dell’uscita nelle sale cinematografiche del film “Il sacro GRA”, ndr).

Ultimo aggiornamento Giovedì 26 Dicembre 2013 16:22
 
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