=ECONOMIA. COME FAR CRESCERE L'OCCUPAZIONE= Stampa
Scritto da Redazione   
Lunedì 21 Novembre 2016 12:09

Lavoro e qualità della vita: migliorare si può,

non con il liberismo sfrenato di questo governo.

Ecco una proposta. Semplice e fattibile

 

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Ora ditemi, come può una riforma delle pensioni che aumenta l’età lavorativa ridurre la disoccupazione?
Come si può parlare, con il jobs act e la riforma della scuola, di “ buona vita”, se questi provvedimenti hanno reso tutti i lavoratori precari a vita e sottomessi alle volontà del capataz di turno?
Come si può parlare di “buona società” con questa confusa riforma costituzionale ed elettorale dove vengono meno i principi su cui si poggia una democrazia? [...]
Concentrare il potere economico e decisionale in pochi centri di potere, uno Stato oligarchico, togliendo spazio allo stato sociale e al mondo del lavoro. Questo lo scopo, dunque, di queste controriforme.

di  Giuseppe Florio
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Jeremy Rifkin, negli anni Novanta, pubblicò il saggio La fine del lavoro, in cui metteva in evidenza come la potenza di calcolo dei moderni elaboratori e la conseguente perfezione della tecnologia avrebbe posto in esubero un maggior numero di lavoratori. Egli sosteneva che il mondo della produzione, in qualunque settore, avrebbe richiesto un numero minore di lavoratori e con elevata specializzazione. Tutto questo nel mondo occidentale sta già avvenendo. Se ad un macchinario sempre più sofisticato e robotizzato aggiungiamo il fatto che l’imprenditore, per mantenere inalterato il profitto, va alla ricerca di luoghi dove il lavoro costa meno, per i nostri giovani e per le generazioni future la disoccupazione sarà la normalità. Le sacche di povertà si sono ampliate e si amplieranno sempre di più e le crisi sociali, senza interventi straordinari dei governi, si susseguiranno nel tempo. In Italia l’Istat ha dichiarato che i poveri in assoluto sono in aumento e che alla fine del 2015 ne sono stati accertati oltre 4.500.000. Implicitamente Rifkin affermava che solo con la riduzione dell’oflorio2rario di lavoro si può far fronte alla maggiore disoccupazione.

Il mondo occidentale sta attraversando una crisi economica ormai da circa un decennio. Questa crisi è più grave, forse, di quella del ’29 e comunque la più grave dall’ultimo conflitto mondiale e le politiche economiche, improntate per lo più sull’austerità, varate dai vari governi, l’hanno accentuata anziché sanarla. Solo gli USA, durante questa crisi, hanno adottato una politica economica keynesiana investendo nel mondo produttivo e nel sociale più di mille miliardi e mezzo di dollari oltre alle politiche monetarie espansive del quantitative easing messe in atto dalla Federal Reserve. Nonostante ciò, gli USA non sono del tutto fuori dalla crisi, infatti la disoccupazione si mantiene su livelli del 5% della popolazione attiva, vale a dire che milioni di persone restano disoccupate. In Europa invece, e in Italia in particolare, è prevalsa l’opinione secondo cui per uscire dalla crisi bisogna ridurre il deficit di bilancio e il debito pubblico ed ecco che i vari governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni hanno fatto a gara nel prendere provvedimenti volti a ridurre la spesa pubblica anziché incrementarla dimenticando che la spesa pubblica è il volano dell’economia. Dal Fiscal Compact all’aumento dell’età pensionabile portandola fino a 67 anni, dal blocco del turn over nel pubblico impiego al blocco del rinnovo dei contratti, dalle privatizzazioni secondo cui basta cedere ai privati per risolvere e sanare le casse dello Stato, alla grande riforma, il Jobs Act, secondo cui l’imprenditore, avendo la possibilità di licenziare a suo esclusivo giudizio, avrebbe assunto in massa nuovo personale. Solo dei superdotati potevano prendere simili provvedimenti. Sta di fatto che il debito pubblico è passato dal 103% con l’ultimo governo Prodi al 133% del Pil con l’attuale governo presieduto dal riformatore e la disoccupazione dal 4-5% si è stabilizzata sul 12%. Riforme, non impoflorio3rta su cosa e come, purché riforme.

Al riguardo mi permetto una semplice riflessione: queste cosiddette riforme erano nel programma di Berlusconi e della loggia massonica di Licio Gelli e la sinistra, allora, giustamente si oppose con tutte le forze e quelle riforme non furono attuate. Ora, con un governo che si spaccia di sinistra, queste cosiddette riforme, si approvano e con clamore. Paradosso degli italiani.

Ma torniamo ai superdotati. Evidentemente questi superdotati hanno fatto studi troppo impegnativi e hanno tralasciato la lettura degli economisti classici e di Keynes ma, soprattutto, hanno trascurato i principi semplici su cui si poggia l’economia e le finalità a cui devono mirare gli economisti. L’economia non è una scienza esatta ma i cardini di un sistema economico, in una economia di mercato, sono la domanda e l’offerta che determinano l’equilibrio economico del sistema. Se uno dei due principi viene meno o si riduce, il sistema va in disequilibrio e quindi si ha la crisi economica.

Diceva Keynes, non un marxista, che in periodi di crisi economica lo Stato, per mantenere la gente occupata, e quindi produrre redditi, doveva far scavare fosse e poi riempirle perché se si aspetta che il mercato con le sue sole leggi riporti il sistema economico in equilibrio, nel frattempo, la gente muore. E’ con il lavoro, da cui dipendono i consumi, diceva Keynes, che si possono risolvere le crisi economiche. Sono necessari, quindi, massicci interventi statali o politiche economiche che mirino a mantenere invariata o meglio a incremflorio4entare l’occupazione per rimettere il sistema in equilibrio.

Ma Keynes diceva anche altro e di molto più importante. Il suo pensiero era basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani; affermava che le politiche economiche degli Stati devono tendere, oltre che a mantenere la stabilità del mercato, a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”. Ora ditemi, come può una riforma delle pensioni che aumenta l’età lavorativa ridurre la disoccupazione? Come si può parlare, con il Jobs Act e la riforma della scuola, di “buona vita” se questi provvedimenti hanno reso tutti i lavoratori precari a vita e sottomessi alle volontà del capataz di turno? Come si può parlare di “buona società” con questa confusa riforma costituzionale ed elettorale dove vengono meno i principi su cui si poggia una democrazia? Queste riforme hanno raggiunto un unico scopo, quello di ridurre i diritti dei lavoratori conquistati nel tempo e con dure lotte. Un liberismo sfrenato è il filo conduttore del nflorio5ostro governo e dei governi dell’Europa occidentale. Il loro punto di riferimento è il documento della società finanziaria JP Morgan secondo cui bisogna concentrare il potere economico e decisionale in pochi centri di potere, uno Stato oligarchico, togliendo spazio allo stato sociale e al mondo del lavoro. Questo lo scopo, dunque, di queste controriforme. Non più dialogo, concertazione, ma decisionismo senza preoccuparsi che a subire le decisioni ci sono persone e non oggetti.

Non a caso ad applaudire queste cosiddette riforme è soprattutto il mondo finanziario e quello industriale. Purtroppo c’è pure qualche sprovveduto lavoratore o pensionato che si lascia incantare dalla vuota demagogia di questi pifferai. Sta di fatto che le politiche economiche varate dai governi dell’Europa occidentale e soprattutto dal nostro paese non hanno sortito effetti.  I vari incentivi alle imprese e i bonus a una parte dei lavoratori non possono produrre effetti perché le imprese, mancando la domanda, non aumentano, pur con gli incentivi, la produzione, e quindi non assumono, e i lavoratori, in periodi di deflazione, mancando certezze per il domani, tendono a tesaurizzare anziché a consumare. La crescita economica del 2° trimestre 2016, dati Istat, è stata pari a zero: zero, ciò nonostante i nostri sapientoni continuano imperterriti con provvedimenti tampone che diventano solo spreco di denaro pubblico.

Da quanto esposto consegue, secondo il parere di ben noti economisti, che, con una politica economica keynesiana basata su forti investimenti pubblici - ben oltre quelli che potrebbero derivare dalla flessibilità così tanto conclamata, pura propaganda politica - ripartiti da nord a sud e con una adeguata espansione della politica monetaria rivolta direttamente verso il mondo produttivo, ci sarebbe la possibilità di aumentare l’occupazione e il reddito e uscire quindi da questa crisi che sta annientando la generazione dei trentenni e dei quarantenni. È necessario ridare certezza, le persone devono poter credere nel proprio futuro, vivere una vita dignitosa per ricominciare a consumare, a investire e a incrementare, demograficamente, la popolazione. Questo intendeva Keynes quando parlava di “buona vita e di buona società”.

Mi si potrebbe obiettare che siamo limitati nella spesa per i vincoli di bilancio imposti dall’Europa. Vorrei ricordare florio6a questi sapientoni, sia italiani che europei, che gli investimenti pubblici producono reddito e questo, per effetto del moltiplicatore, oltre ad aumentare l’occupazione produce nuova imposta che alla fine del ciclo ricostituisce, quanto meno, il capitale investito. Diversi sono stati i suggerimenti in tal senso da parte di insigni economisti, la lettera degli economisti ai capi di Stato, ma, come si dice, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Presuntuosi e incapaci.

Ultimamente un gruppo di economisti tra cui B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini e Sylos Labini, hanno elaborato un progetto e pubblicato un saggio “per una moneta fiscale gratuita”, secondo cui lo Stato dovrebbe distribuire, gratuitamente, alla popolazione attiva, sia imprenditori che lavoratori, e ai disoccupati una somma, in titoli pubblici, pari a € 200 miliardi da restituire, pagando le imposte, non prima di due anni. Il senso della proposta è facilmente intuibile. Ampliare la domanda per incrementare i consumi e quindi gli investimenti. Il mancato gettito fiscale verrebbe scongiurato dal fatto che si incrementerebbero i consumi, e quindi l’occupazione, e dai nuovi redditi prodotti si otterrebbero nuove imposte. Un intervento dello Stato, questo, che non intaccherebbe ma migliorerebbe, a mio parere, la situazione del bilancio statale. La proposta non è stata presa affatto in considerazione. Neanche una minima discussione in merito. I soloni dell’ignoranza, purtroppo, sono sempre in prima fila.

Altri economisti tra cui P. Krugman, e ancor molto prima il grande europeista J. Delors e i keynesiani in genere, hanno auspicato la riduzione dell’orario di lavoro per uscire dalla crisi e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Personalmente ho sempre avvalorato questa tesi. La facoltà di economia dell’Università di Torino ha pubblicato uno studio che mette in risalto gli aspetti positivi della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario anche se ammette che aumenterebbero i costi di produzione. Ma tale proposta, detta così, è improbabile che possa essere presa in considerazione. Una simile proposta, purtroppo, non potrà mai essere applicata perché, in una economia di mercato, il nostro Paese non sarebbe competitivo e quindi in breve sarebbe costretto a dichiarare default.

Pur non essendo un economista, ho approfondito lo studio e attraverso diverse operazioni, sono giunto a elaborare una ipotesi di riforma dei tempi del lavoro che non fa aumentare i costi di produzione, restando quindi competitivi sul mercato, e nello stesso tempo non fa gravare il bilancio dello Stato di ulteriori costi.
La mia proposta, come si avrà modo di constatare, è molto semplice e riguarda la:

florio7Riduzione dell’orario di lavoro da 8 a 6 ore giornaliere senza oneri per l’impresa e senza riduzione del salario netto per il lavoratore.

La proposta, come si avrà modo di constatare, è molto semplice tanto da sembrare banale, ma se la si esamina con un pizzico di umiltà, credo fermamente che in essa ci sia del buono e del fattibile sia dal punto di vista etico che contabile con indubbie ripercussioni positive nel sistema economico del paese.

In breve, il tutto si fonda su una riduzione dell’orario di lavoro da 8 a 6 ore al giorno prevedendo quindi minimo due turni di lavoro al giorno, e una riduzione dei contributi sociali e previdenziali e del prelievo fiscale. Naturalmente i costi dei due turni di lavoro di sei ore vanno confrontati con una giornata attuale di 8 ore + 4 ore di straordinario.

Nel complesso, la proposta, lascia invariate le entrate per lo Stato perché essa mira ad aumentare l’occupazionflorio8e e quindi la platea dei contribuenti; non fa aumentare i costi per l’impresa anzi mira a diminuire i suoi costi di produzione rendendo l’impresa più competitiva e infine lascia invariato il salario netto del lavoratore. Naturalmente la proposta, nella sua semplicità, per raggiungere i risultati previsti, necessita di alcuni accorgimenti che con un esempio spiego nelle immagini in questo articolo, precisando che il procedimento adottato vale con qualsiasi salario preso in considerazione. Dal più basso al più alto. Credo, comunque, che sia più interessante il contenuto della proposta che lo stesso calcolo da cui si evince la fattibilità della proposta.

Dalla proposta avanzata a trarre maggior vantaggio sarebbe il lavoratore perché, pur percependo lo stesso salario, sarebbe meno stressato, più soddisfatto del suo tempo libero, meglio realizzato nelle sue aspirazioni proprio perché con l’aumento dell’offerta del lavoro, avrebbe la possibilità di scegliere il lavoro più confacente alle sue attitudini, non dovrebbe più mendicare ciò che gli spetta di diritto e, infine, avrebbe maggiore potere contrattuale.

La proposta sarebbe vantaggiosa anche per l’impresa in quanto essa florio9 aumenterebbe la produzione perché sarebbero maggiormente sfruttate le macchine e perché il lavoratore, meno stressato, produrrebbe di più. Un lavoratore, è matematicamente accertato, raggiunge il massimo della produzione tra la quinta e la sesta ora; dopo, inizia la fase calante, facendo aumentare i costi marginali di produzione.

Sono sicuro che da questa nuova organizzazione del lavoro, anche se si riducono i prelievi contributivi e fiscali, a trarre vantaggio sarebbe lo stesso Stato perché, oltre ad aumentare le entrate, con l’aumento dell’occupazione diminuirebbero i costi relativi alla disoccupazione, alla cassa integrazione, alla mobilità, alle malattie da lavoro, agli infortuni sul lavoro. Tutto questo segnerebbe anche la fine degli incentivi vari alle imprese per assumere o mantenere invariato il personale ed infine, credo, si avrebbe un deflusso di lavoratori dal pubblico verso il privato e quindi una riduzione della spesa pubblica che potrebbe essere investita per migliorare i servizi ai cittadini.

Naturalmente non sono in grado di quantificare i risparmi dello Stato come non sono in grado di quantificare, in termini monetari, ilflorio10 benessere che deriverebbe al lavoratore da questo nuovo sistema, ma è indubitabile che essi ci siano. Basti pensare alla certezza del lavoro e alla sicurezza del proprio futuro per rendersi conto dei grandi benefici.
Questa nuova organizzazione del lavoro, come si vede da queste considerazioni, farebbe strame di tutte le leggi varate finora perché non più necessarie e renderebbe inutili il Jobs Act e la stessa ultima riforma delle pensioni perché il lavoratore, meno stanco e più soddisfatto delle sue scelte, prolungherebbe autonomamente l’età lavorativa. Certamente una simile riforma produrrebbe anche qualche aspetto negativo, una possibile inflazione, ma ritengo che una oculata gestione da parte del Governo potrebbe annullare o attutire gli eventuali aspetti negativi del nuovo sistema.

Alcuni economisti tentano di convincere l’opinione pubblica e il mondo del lavoro che la crescita deriva da una maggiore produttività e per raggiungere tale obiettivo è necessario che i lavoratori lavorino di più senza che venga aumentato il salario. Secondo questa tesi, è sufficiente la crescita economica per far aumentare l’occupazione. Non è così. Basta rileggersi Rifkin. La nuova tecnologia, anche se produce crescita, assorbe meno lavoratori. Ma, a prescindere da questa considerazione, resta il fatto che per questi signori i lavoratori non contano niente, sono semplici macchine senza alcun diritto. Loro hanno una visione prettamente capitalistica del sistema. Siamo allo schiavismo. Assurdo. Ma ancor più assurdo è che forze politiche che si dicono vicine ai lavoratori non dicano niente per contrastare tale soluzione e approvino tutte le leggi che mirano ad annullare la personalità e la dignità dei lavoratori. La mia proposta mira a raggiungere lo stesso risultato della maggiore produttività senza sfruttare i lavoratori, ma premiandoli, e nello stesso tempo mira a una trasformazione strutturale del sistema migliorando la qualità della vita.

florio11Cosa cambia con il sistema proposto? Cambia che aumenta  la forza lavoro relativamente al nuovo turno, che le 12 ore sarebbero fatte con personale meno stressato e quindi più produttivo e le macchine verrebbero sfruttate meglio e in maniera sistematica per 12 ore, minimo, abbattendo in tal modo i costi fissi per l’impresa.  La stessa cosa avverrebbe per l’azienda che attualmente effettua due turni di 8 ore. In questo caso  l’azienda dovrebbe fare tre turni di 6 ore per complessive 18 ore. Le due ore in più sarebbero come se fossero lo straordinario dei due turni standard.  L’azienda che effettua attualmente tre turni di 8 ore dovrà farne quattro di 6 allo stesso costo.

Gli esempi prodotti nelle immagini a corredo di questo articolo valgono per qualsiasi tariffa salariale e per qualsiasi struttura.

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Ultimo aggiornamento Lunedì 21 Novembre 2016 17:52
 
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