=A PROPOSITO DELLA CRISI. LA LIBERTA' DI SCEGLIERE IN UN SISTEMA FINITO. O ETERNO?= Stampa
Scritto da Redazione   
Lunedì 10 Ottobre 2011 23:52

 pallone-gonfiato2Mino Magrone
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Crisi, crescita e favole

 

Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità".

 

Abbiamo chi?

 


 

CRESCITA

        

         Tina Luciano
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         La crescita folle che misura le nostre vite

     

"s ono sempre di più le donne e gli uomini consapevoli che hanno il coraggio di staccarsi da modelli economici alla base di una crisi profonda, forse non ancora percepita nella sua totalità, che ci sta cambiando lentamente quanto inesorabilmente"

 

tecnologia

       Mino Magrone

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       Ma è la tecnologia il soggetto della storia: crea scopi e alimenta bisogni


 

 

Mino Magrone
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pallone-gonfiato2

Crisi, crescita e favole

 

Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità".

 

Abbiamo chi?

 

Un coro: “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, sono indispensabili e urgenti misure straordinarie che favoriscano la “crescita”.

Per capire che si parla ormai a vanvera, ragioniamo un attimo “in astratto”, ipotizziamo cioè una situazione economica stazionaria, nella quale insomma non si registra né crescitadecrescita.

L’equazione che fotografa questa astratta situazione è questa:

R=C+I+Sp+Esp-Imp

con la quale, dunque, si intende dire che il reddito nazionale [R] è uguale alla somma dei consumi [C], degli investimenti [I], della spesa pubblica [Sp] e delle esportazioni [Esp], meno le importazioni.

La “crescita”, secondo la letteratura economica corrente è l’incremento annuo del prodotto interno lordo, insomma l’incremento di valore del reddito nazionale [R].

 

Nella realtà, le cose -  anche e soprattutto quelle economiche -  non stanno ferme, come si saprà; l’equazione di cui sopra, dunque, nella realtà “si muove”: aumenta C, diminuisce I, si incrementano le esportazioni [Esp] diminuiscono le importazioni, e così via mutando i termini della formula.

Che cos’è, allora, nella realtà, che sostiene la crescita e che cosa la frena o addirittura la fa arretrare?

Ipotizziamo che il “caso concreto” sia questo:

100=25+35+25+10-5; cioè: 100=100.

Possiamo dire, parafrasando Marx (“l’economia politica è l’anatomia della società civile”), che l’equazione appena ipotizzata come realizzata costituisce un esercizio di “anatomia delle grandezze economiche che determinano la crescita”. Ci si deve chiedere, dunque, perché, come nel caso concreto ipotizzato, la somma dei valori delle grandezze economiche che in un certo anno “dà uguale a 100 dopo un anno, per esempio, “dà a 110 così determinando l’incremento del reddito nazionale del 10%; onde, l’equazione diventa: 110=40+40+25+10-5, cioè 110=110. L’incremento del reddito nazionale può essere dipeso, nell’ipotesi qui formulata, dal fatto che i consumi sono passati, da un anno all’altro, da 35 a 40 e gli investimenti da 35 a 40, fermi invece spesa pubblica, esportazioni ed importazioni. Gli investimenti netti (quelli, cioè, che superano il necessario a rimpiazzare gli impianti obsoleti) possono essere aumentati, nel caso ipotizzato, grazie al minor costo del denaro. Se l’interesse sul capitale preso a prestito, per esempio, diminuisce, gli investimenti diventano più convenienti; essi, dunque, si incrementano. Ma gli investimenti netti possono aumentare anche grazie al miglioramento dei processi produttivi o all’innovazione tecnologica (l’innovazione è massima quando è massima la distanza tra il prodotto esistente e il nuovo prodotto).

Naturalmente, si possono ipotizzare altre situazioni di “movimento” tra le grandezze economiche nella formula dalla quale siamo partiti: gli investimenti possono ridurre, mettiamo, la disoccupazione dei lavoratori, e dunque incrementare la massa complessiva dei salari e dei consumi.

Insomma: una volta conosciute le grandezze economiche in gioco (come nelle formula ipotizzate), si possono assecondare molteplici adattamenti e sollecitazioni in grado di smuovere il sistema bloccato e ravviarlo verso il suo sviluppo.

 

Detto questo, e riferendoci specificatamente alla spesa pubblica (che in Italia e in tutto il mondo occidentale è “sotto processo”), l’ormai abusato slogan secondo il quale il nostro (dell’Italia) debito sovrano (120% del Pil) è talmente alto da certificare il fatto che noi italiani “abbiamo vissuto, in questi anni, al di sopra delle nostre possibilità” è davvero un mero slogan propagandistico.

Abbiamo già chiarito che la spesa pubblica è una grandezza economica che concorre con altre alla composizione del reddito nazionale; si dà, però, il dato di fatto che la spesa pubblica non regge sulla stampa di banconote da parte della zecca…; essa è alimentata dai tributi prelevati dai redditi dei cittadini e dai titoli di Stato che assorbono per sé i risparmi degli italiani: onde, nella formula dalla quale siamo partiti, ogni incremento di spesa pubblica comporta e provoca una riduzione dei consumi o dei risparmi investiti.

Noi italiani, dunque, non “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”; semmai al di sotto, dal momento che parte, e quanta parte!, della spesa pubblica è stata malamente sprecata dallo Stato che ha raccolto soldi e li ha buttati al vento (o in poche tasche), tradendo le ragioni stesse dei tributi pagati dai cittadini e dei risparmi dedicati dai cittadini a dare una mano allo Stato.

Si può concludere che è stato lo Stato italiano (e chi lo ha governato) ad aver vissuto per tanti anni al disopra o al disotto o contro i suoi doveri e ad aver impoverito, così, il Paese.

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Tina Luciano
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CRESCITA

La crescita folle che misura le nostre vite

 

"Gli aspetti patologici del sistema basato sul "consumismo" appaiono oggi molto più chiaramente di quanto non lo fossero nel 2005, anno in cui Maurizio Pallante, scrisse "La decrescita felice" e più ancora nel 1995, dieci anni prima, pensando a Jeremy Rifkin e al suo libro "La fine del lavoro""

 

Le cronache di catastrofi ambientali, vicine e lontane, ci riportano al tema della decrescita intesa come l'urgenza di individuare nuovi e diversi indicatori per misurare il benessere di una popolazione o di un territorio.

Affidare la misurazione della ricchezza ad un indicatore parziale ed ambiguo come il prodotto interno lordo (PIL) significa continuare a guardare il mondo attraverso una lente deformante: il rapporto Stiglitz definisce il PIL "misura sbagliata delle nostre vite".

Come misuriamo l'impatto sulla ricchezza  delle piccole e grandi catastrofi ambientali causate dallo sfruttamento del territorio e da un'idea di sviluppo che è tutta incentrata sull'aumento del profitto e sulla quantità complessiva di beni e servizi prodotti?

Come non riflettere sul paradosso che la crescita della spesa sanitaria determinata da un aumento delle patologie viene computata come "ricchezza prodotta" in quanto spesa pubblica componente fondamentale del PIL? E ancora: ha senso considerare "ricchezza" il fatturato generato dalle aziende che trasportano verso sud milioni di confezioni di acqua minerale imbottigliata al nord, e viceversa, senza misurare anche l'effetto del traffico veicolare sulla qualità dell'aria e senza sottrarre questa "esternalità negativa" dal valore complessivo della ricchezza di un Paese?

Queste sono solo alcune piccole considerazioni che, da sole, suggeriscono quanto siano inadeguati gli strumenti con cui ragioniamo di valore e di ricchezza e quanto vada affermandosi il bisogno di superare la rappresentazione classica di quanto abbiamo chiamato fin qui "sviluppo" e "crescita". Il tema della "decrescita felice" proposto qualche anno prima che la bolla speculativa dei titoli derivati imponesse una contrazione traumatica della ricchezza delle famiglie e delle imprese, aveva sollecitato questa riflessione e aveva posto il tema dell'impossibilità per un sistema finito (sebbene globalizzato) di produrre crescita infinita.

Stabilito e condiviso il presupposto che un sistema finito è limitato e che tali devono essere  anche i valori in esso contenuti, risulta evidente che si aprono due possibili alternative:

1) tutti i componenti del sistema convergono verso una riduzione della ricchezza consumata (e prodotta)

2) un sottoinsieme del sistema produce ricchezza sottraendo risorse alla restante parte, alle generazioni presenti e a quelle future.

La sottrazione di risorse e di ricchezza di una parte in danno dell'altra ha spesso a che fare con quello che comunemente chiamiamo "gestione dei beni comuni": la mercificazione di un bene fondamentale per la vita, come l'acqua, non può essere considerata creazione di ricchezza, per il semplice fatto che l'acqua non viene prodotta da nessuno e che la sua distribuzione non può determinare - di fatto - un diritto di proprietà di un bene che appartiene a tutti.

Il tema della decrescita, quindi, ha come antagonista la riduzione progressiva degli spazi di democrazia e la violazione del bene comune che si identifica con le risorse naturali e ambientali. "C'è un irriducibilità alla logica del mercato di alcuni valori che riteniamo  costituenti di una società civile" cfr. Paolo Cacciari.

borsa-di-milano1Gli aspetti patologici del sistema basato sul "consumismo" appaiono oggi molto più chiaramente di quanto non lo fossero nel 2005, anno in cui Maurizio Pallante, scrisse "La decrescita felice" e più ancora nel 1995, dieci anni prima, pensando a Jeremy Rifkin e al suo libro "La fine del lavoro".

La scissione tra produzione e finanza ha generato una straordinaria dicotomia tra prodotto e consumo: l'idea che il consumo possa avvenire prescindendo dal reddito (e quindi dalla ricchezza) è inspiegabilmente e sorprendentemente alla base di politiche di delocalizzazione selvaggia e rappresenta il suicidio involontario del sistema economico basato sul consumismo.

Risulta arduo comprendere come si possa prevedere un aumento del consumo di merci quando il sistema produttivo che le produce espelle gran parte della manodopera che con il suo reddito alimentava la domanda delle stesse.

Ma, proprio con il superamento dell'idea di consumo legata all'acquisto, questo baco del sistema economico, ci propone un modello alternativo basato sullo scambio. Il parossismo delle speculazioni finanziarie sta creando il presupposto per il superamento dell'uso del denaro in alcune transazioni: baratto, riuso, prestito gratuito o l'uso di moneta complementare nelle transazioni tra aziende (si veda il caso Wir Bank in Svizzera) compongono uno scenario di esperienze e di buone pratiche del tutto nuove e impensabili fino a qualche anno fa.

Questa straordinaria follia sistemica apre spazi a visioni e pratiche alternative che non appartengano solo a piccole èlite chiuse ed autoreferenziali, ma che sono sempre più diffuse e condivise da donne e uomini consapevoli che hanno il coraggio di staccarsi da modelli economici alla base di una crisi profonda, forse non ancora percepita nella sua totalità, che ci sta cambiando lentamente quanto inesorabilmente.

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Mino Magrone
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tecnologia

 

 

Ma è la tecnologia il soggetto della storia: crea scopi e alimenta bisogni

 

"Anche il sole che splende nel sistema solare si dice che tra cinque miliardi di anni si spegnerà. Ma questa, per noi, non è una previsione della sua fine. Per noi ciò equivale alla sua eternità ".

 

 

 

Nonostante la crisi il nostro Pil quest’anno avrà un incremento, rispetto all’anno scorso, che oscillerà tra mezzo punto percentuale e un punto e mezzo. Perciò a Tina Luciano bisogna dare atto di aver affrontato un tema (quello della “decrescita”) controcorrente e del tutto ignorato dalle attuali cronache e discussioni politiche, televisive e culturali. Anche a me pare giusto sottolineare l’opportunità che il calcolo del Pil tenga presenti, col segno meno, le cosiddette “esternalità negative”.

Il Pil, ovviamente, subirebbe una riduzione causata però non dalla decrescita in senso stretto ma dalla maggiore precisione del suo calcolo. A tal proposito, penso sia giusto dire che al Pil va però aggiunta quella “ricchezza” prodotta dall’economia sommersa, oggi non calcolata.
Questo discorso, tuttavia, si mantiene ai margini del tema della decrescita e non ne esplora le implicazioni più rilevanti.

La decrescita è complicata così come lo è la crescita. Ambedue sono processi lenti che vanno padroneggiati e conosciuti nella loro “anatomia”, pena il tragicomico destino di ogni apprendista stregone. Il nostro, dice Tina Luciano, è un “sistema finito” e in quanto tale non può avere una produzione infinita. Essa, la produzione, va incontro ad uno sbarramento per cui “tutti i componenti del sistema convergono verso una riduzione della ricchezza consumata (e prodotta)”.

Da questo discorso è difficile trarre conclusioni nel senso, per esempio, che la riduzione della ricchezza consumata e prodotta è causata dall’azione umana o, viceversa, che essa è il prodotto oggettivo di una sorta di dialettica materialistica all’indietro. Io credo, invece, che il sistema non sia “finito” perché, se così fosse, si trascurerebbero fatti e forze decisivi come l’impulso irrefrenabile e potente della tecnologia e l’aumento costante della produttività che non consentono alla produzione di arrestarsi.

Qual è lo scopo della tecnica che, con tutta evidenza, appare oggi come il soggetto della storia?
Diversamente dalle forze politiche, etiche, economiche e religiose che hanno ciascuna uno scopo specifico ed escludente gli scopi delle altre forze, la tecnica mira non a uno scopo pecifico ed escludente ma all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che è, tra l’altro, incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni.


Stiamo vivendo la terza rivoluzione industriale. Essa, è vero, soprattutto sul versante dei bisogni e dei consumi, ha qualche difficoltà a fronte della straripante capacità dell’apparato produttivo di sfornare beni e servizi. Ma lo sbarramento non c’è perché in questa fase dell’industrialismo è presente un’industria particolare: quella della produzione dei bisogni.

L’argomento del “sistema finito” richiama alla mia mente i discorsi che sono stati fatti intorno alla fine della storia. Per esempio, molto scalpore e tante discussioni suscitò “La fine della storia e l’ultimo uomo” (New York, 1992) di Francis  Fukuyama che scorgeva nella fine del socialismo reale e nel dominio globale del capitalismo nell’intero Pianeta la fine, appunto, della storia. Per Alexandre Kojève, invece, la fine della storia sarebbe qualcosa di già avvenuto. Sarebbe cioè il comunismo: vale a dire l’americanizzazione del Pianeta. Egli infatti pensa che proprio gli Usa abbiano già raggiunto lo stadio finale del comunismo marxista. Non è il caso del “sistema finito” ma non v’è chi non veda che in questi esempi si tratta di conclusioni molto spesso infondate e arbitrarie.

Anche il sole che splende nel nostro sistema solare si dice che tra cinque miliardi di anni si spegnerà. Ma questa, per noi, non è una previsione della sua fine. Per noi ciò equivale alla sua eternità.

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Ultimo aggiornamento Martedì 08 Novembre 2011 04:05
 
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