=LA CRISI SFUGGENTE= Stampa
Scritto da Redazione   
Domenica 22 Gennaio 2012 20:42

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“Poveri e opulenti”

 

 

di Mino Magrone
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Si può essere opulenti e patire contestualmente la miseria: la miseria nell’abbondanza. Perché?

 

 

 

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Sembra irrazionale e quasi pateticamente “nostalgico” discutere in questo momento di crisi economica da “sottoconsumo” come una della cause della crisi. Nostalgico perché la categoria sociale ed economica del sottoconsumo richiama alla memoria scene, ormai antiche da noi, di plebi affamate e diseredate. Non ci sono più, per fortuna! Ma nelle così dette società “opulenti” e ben “nutrite” persiste il sottoconsumo come “categoria tecnica” che spiega la crisi e gioca un ruolo decisivo nella realtà sociale ed economica. Si può essere opulenti e patire contestualmente la miseria: la miseria nell’abbondanza. L’abbondanza è quella che caratterizza l’apparato produttivo di beni e servizi nel senso che la sua produttività è più alta rispetto alle capacità e possibilità di consumo integrale della produzione. Il sottoconsumo va, insomma, visto come dislivello tra produzione di beni e servizi e consumo degli stessi. Ma è possibile questo dislivello? La domanda fa riemergere la vecchia e mai sopita discussione intorno alla famosa “teoria degli sbocchi” formulata e sviluppata dall’economista francese J.B. Say. Say ragiona così: se i prodotti ed i servizi si scambiano tra loro (la moneta interviene soltanto per facilitare gli scambi) consegue che ogni prodotto serve da sbocco ad altri prodotti e “quanto più numerosi sono i prodotti e moltiplicate le produzioni tanto più gli sbocchi sono facili, variati e vasti”. Insomma l’offerta crea la propria domanda! Pertanto non è possibile alcun dislivello, non sono possibili né la superproduzione generale né il conseguente sottoconsumo, come invece avevano paventato e creduto Malthus e Sismondi. Non sono possibili, in definitiva, le crisi economiche generali. Le crisi, però, sono storicamente esistite. Tristemente famosa è quella del 1929 che ha aperto il campo all’introduzione delle teorie della crisi e delle politiche economiche anticicliche. La così detta “rivoluzione keynesiana” ha segnato la fine in economica del, fino a quel momento, indiscusso (salvo la potente critica della scuola socialista) “laissez-faire”. Da quel momento in poi la ricerca e la teoria economica hanno volto l’attenzione ai problemi macroeconomici, agli studi di così detto “periodo breve”, lasciando in ombra i teoremi astratti di equilibrio generale di lungo periodo e di statica economica. Irrompono sulla scena l’analisi di breve periodo, la dinamica economica, la macroeconomica ed i temi dello sviluppo economico.

La crisi italiana oggi è segnata a mio parere da due fatti decisivi: il “sottoconsumo” e la “preferenza per la liquidità”. Nell’equazione che descrive le grandezze economiche che formano il reddito nazionale (già discussa in un mio recente articolo su Sudcritica) i due fatti ora ricordati rappresentato i consumi (lettera C) ed il risparmio investito (lettera I): R = C + I + Sp + Esp – Imp

Se la situazione statica descritta dall’equazione rimane stabile ed inalterata nel tempo tutto il reddito prodotto in un certo periodo di tempo sarebbe uguale agli elementi del secondo membro dell’equazione. Nel breve periodo possiamo, motivatamente, ritenere un dato costante la capacità produttiva dell’apparato industriale e commerciale del paese. La quantità e qualità di prodotti e servizi non varia nel breve periodo. Ciò che è variato in Italia è il reddito netto percepito dai consumatori del ceto medio impiegatizio e dai lavoratori dipendenti dell’industria e dei servizi pubblici e privati. La “forbice” tra retribuzioni lorde e nette, nel nostro paese, è molto ampia. Ciò dipende dall’elevatissima “pressione tributaria” che in questi ultimi tempi ha raggiunto la percentuale massima sul Pil del 46%. In buona sostanza la pressione tributaria sui redditi da lavoro dipendente divora la metà del reddito lordo di questi consumatori. È proprio per queste ragioni che i sindacati si sono battuti, invero senza molta energia, per ridurre il costo del “cuneo fiscale” che, qualora ridotto, avrebbe comportato un aumento delle retribuzioni. Sicché, a parità di produzione ma con salari e stipendi netti in calo, nella nostra equazione “C (- i consumi) sono diminuiti per cui, a parità delle altre condizioni, il reddito nazionale (il Pil) del periodo successivo dovrà diminuire a causa della riduzione dei consumi. Questa è una crisi economica causata dal “sottoconsumo”.

Incidentalmente, va osservato che lo Stato italiano (meglio i governi italiani degli ultimi 30 anni) si è illuso che l’enorme spesa pubblica alimentata dall’alta pressione tributaria e dal finanziamento con debito pubblico, potesse scongiurare il pericolo del sottoconsumo e della recessione economica. Come ripristinare il pari livello tra produzione e consumo? Il rimedio sta nella riduzione del “cuneo fiscale”, nell’avvicinamento cioè della retribuzione lorda a quella netta. Per le imprese ciò non comporta maggiori costi per salari e stipendi; per il reddito nazionale i maggiori consumi si traducono in una spinta verso la crescita; per l’erario il minore gettito verrebbe compensato dai maggiori prelievi sull’accresciuto reddito nazionale che ovviamente si ripartisce tra “C + I + Sp + Esp – Imp”, con la componente dei consumi più elevata. Inoltre un’imposta patrimoniale oltre la soglia di 400-500mila euro e l’eliminazione delle cospicue uscite pubbliche per il rimborso delle spese ai partiti ed il costosissimo finanziamento ai giornali quotidiani cosi detti indipendenti e di partito possono compensare le minori entrare erariali.

L’osservazione del comportamento dei soggetti economici durante i periodi di crisi economica ha mostrato che anche quei soggetti che detengono capitali liquidi e, quindi, suscettibili di investimento preferiscono, fintanto che la crisi continua ed in misura molto più ridotta dopo la crisi, la liquidità all’investimento. I risparmi, pertanto, non sono tutti investiti per cui nella nostra equazione “I – gli investimenti” rappresenta il “risparmio investito” e non tutto il risparmio formatosi in un certo periodo di tempo. Tra il risparmio ed il risparmio investito si verifica, molto spesso, sempre nei momenti di crisi, un altro tipo di dislivello. Il risparmio investito è inferiore a tutto il risparmio a disposizione. Un dislivello di questo tipo provoca nella nostra equazione le conseguenze che ormai conosciamo: “I – gli investimenti” diminuiscono per cui, a parità di tutte le altre condizioni, anche il reddito nazionale deve ridursi. La situazione italiana è segnata anche da quest’ultimo dislivello: la “preferenza per la liquidità” riduce gli investimenti ed il risparmio così non utilizzato genera crisi economica con riduzione del Pil, dell’occupazione dei lavoratori, del gettito tributario. È illusorio pensare che in questi casi per ripristinare il pari livello tra risparmi ed investimenti siano sufficienti le manovre del tasso ufficiale di sconto. Oggi è di appena l’1 per cento e tuttavia le banche non prestano denaro alle famiglie ed alle imprese preferendo, a loro volta, depositare la loro liquidità presso la Bce ad appena l’1 per cento d’interesse. L’analisi keynesiana ha mostrato chiaramente le conseguenze depressive di questi fenomeni economici (sottoconsumo e risparmio non investito) sul livello del reddito nazionale. A quest’ultimo proposito (risparmio non investito) va sottolineato che il rimedio può essere visto in una forte ristrutturazione e riqualificazione della spesa pubblica. Lo stato (seguendo in ciò anche le indicazioni della nostra Carta costituzionale) può ridimensionare la spesa corrente (in Italia è oltre l’80% dell’intera spesa pubblica) eliminando sprechi e parassitismo, organismi elettivi inutili e, pur mantenendo inalterato il numero dei parlamentari riducendo congruamente le loro indennità, può aumentare le spese d’investimento in conto capitale attingendo anche al finanziamento con titoli pubblici. A tal proposito lo smantellamento dell’Iri (Istituto ricostruzione industriale) ha comportato più negatività che benefici al sistema industriale italiano. Le aziende “irizzate”, per esempio, seguendo l’indirizzo generale di politica economica del governo in momenti di crisi avrebbero potuto non praticare la “preferenza per la liquidità” ma avrebbero, al contrario, incrementato gli investimenti e così, in parte, eliminato il dislivello tra risparmio ed investimento.

Concludendo, ritengo il problema centrale della macroeconomia è quello della conoscenza delle cause che determinano il reddito nazionale. A ciò Keyns ha dato una risposta nuova, spostando l’attenzione dall’offerta alla domanda. Non esiste infatti nessuna garanzia che l’offerta totale di prodotti sia assorbita da una domanda adeguata di beni di consumo e di beni d’investimento. Gli squilibri, come oggi avviene, non si verificano dal lato dell’offerta (esiste una buona capacità produttiva non utilizzata completamente) ma dal lato della domanda che si dimostra insufficiente. Il pareggio di bilancio pubblico entro l’anno 2013 (eliminazione del deficit oggi al 4% del Pil) e la riduzione progressiva del debito (oggi di 1900 miliardi pari al 120% del Pil) possono essere conseguiti con l’aumento di “C – dei consumi” e di “I – gli investimenti” senza dimenticare che questi ultimi aumentano anche sconfiggendo il “tesoreggiamento” degli operatori speculativi, i quali trattengono elevatissime somme di denaro per poi impiegarle speculativamente in momenti e periodi per loro più favorevoli. Ciò però riduce il regolare flusso del risparmio verso gli investimenti con le conseguenze depressive già chiarite.

Ultimo aggiornamento Domenica 22 Gennaio 2012 21:23
 
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