=ANCORA MORTI IN AFGANISTAN. SIAMO ANCORA LI A FARE CHE COSA?= Stampa
Scritto da Redazione   
Lunedì 30 Luglio 2012 10:17

NOVEMBRE 2012.  Il sacrificio di un altro nostro giovane militare

 

di Francesca Di Ciaula  

__________________

9 luglio 2012, Afghanistan. Sei soldati statunitensi dell'Isaf - International Security Assistance Force - sotto il comando della Nato, sono rimasti uccisi nell'esplosione di una mina nel nord-est del paese. Tutto ciò poche ore dopo la chiusura della Conferenza di Tokyo sull'Afghanistan in cui la comunità internazionale si è impegnata a donare a Kabul 16 miliardi di dollari fino al 2017. (Ansa)

25 giugno 2012, Adraskan, ovest di Kabul, campo di addestramento della polizia afghana. Un'attentato ha ucciso un militare italiano e ferito altri tre militari italiani. Il carabiniere scelto Manuele Braj è la cinquantunesima vittima italiana di questa complessa operazione militare delle forze Nato in Afghanistan, dalla mission della sconfitta dei taliban e costruzione di uno Stato di diritto.

Siamo in Afghanistan dal 2001, con gli Stati Uniti massimamente coinvolti nell'uso di risorse e militari caduti. Un impegno iniziato con l’Operazione “Enduring Freedom”, reazione all'11 settembre e dall'obiettivo della sconfitta dei taliban e al Qaida. Oggi con circa 4.200 militari, l'Italia è impegnata in questa importante missione militare. “Sosteniamo il Governo afgano nello svolgimento delle attività di sviluppo e consolidamento delle Istituzioni locali affinché lo Stato dell'Afghanistan diventi stabile e sicuro e non sia più un rifugio sicuro per il terrorismo internazionale e forniamo assistenza umanitaria alla popolazione” è la dichiarazione ufficiale del   Ministero della Difesa.

Una realtà difficile, quella dell'Afghanistan, dove diverse tribù sono ostili allo Stato, ufficialmente retto dal governo corrotto di Karzai, dove i signori della guerra sono ancora poteri forti dal punto di vista economico e militare e l'economia è sostenuta da narcotrafficanti e produzione di oppio. Oggi gli Stati Uniti hanno la necessità lasciare questo paese. La guerra è impopolare e le promesse elettorali del presidente Obama devono essere mantenute. Insomma dall'Afghanistan bisogna uscire in fretta e col minimo danno possibile, perché non diventi un nuovo Vietnam, soprattutto non lasciando il paese nel caos, bensì rendendolo capace di gestire la sua sicurezza. Per questo Obama ha fissato al 2014 il termine di scadenza della missione dell' Isaf .

Tuttavia la presenza militare degli USA e dei suoi alleati in Afghanistan continua a mostrare tutte le difficoltà e le incongruenze di un'operazione militare di Peace keeping, basata sull'assunzione che sconfiggere i taliban è la via maestra per mettere a posto le cose in quella parte di mondo, per la sicurezza internazionale, con tanto di materiale bellico, tra cui cacciabombardieri, schierato. In realtà la scadenza della missione internazionale sta diventando un'arma a doppio taglio. Per i taliban questo è un punto a proprio favore e difatti gli attentati che si susseguono non hanno che questo scopo: dimostrare la loro forza. Così per motivi di sicurezza aumenta lo stato di allerta e i militari sono sempre più lontani dalla popolazione afghana, più confinati nelle caserme come fortini. Tra i soldati le tensioni aumentano (vedi i recenti episodi di rogo del Corano e la strage di civili ad opera di un sergente americano) e l'ostilità dei civili anche, consapevoli che tra poco saranno lasciati soli.

In Afghanistan la guerra ai taliban si è rivelata di fatto guerra di attacco e se pur alcuni risultati sono stati conseguiti (nelle città la situazione è meno caotica e all'interno della “strategia della transizione” le forze militari afghane riescono a meglio gestire le pericolosissime situazioni per civili e militari), quel processo seppur complesso di costruzione di infrastrutture e istituzioni, non si è compiuto. La necessità di interfacciarsi con le forze di potere e i clan, trattando con i taliban e il governo statale di Karzai, nella costruzione di un nuovo ordine e nell'amministrazione della giustizia, sono aspetti che hanno mostrato incongruenze e vuoti nella gestione della Nato.

Così, dopo l'ultimo militare italiano ritornato in una bara al suo paese, ci siamo ritrovati con la stessa domanda: siamo lì a fare cosa? Giustifica il prezzo di vite umane, un' operazione militare che si fregia della parola pace? Cosa c'è nel mantenimento di questa missione militare in terra straniera che non sia legato al commercio di armi e al denaro da investire  nella ricostruzione? Infine: in quest'uso delle forze militari al seguito delle truppe statunitensi, qual è la natura della decisione tutta italiana che l'ha prodotta? È tanto lontana dall'esigenza dello Stato italiano di aver maggior credito presso la Nato? Pur con gli obblighi legati alla partecipazione dell'Italia  all'Alleanza Atlantica, non è l'uso delle armi in terra straniera, contrario alla nostra Costituzione, che nell'articolo 11 recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”? Perché poi non chiamarla guerra questa serie interminabile e mortale di interventi armati, che producono vittime soprattutto tra civili e viene invece spacciata come aiuto dai governi degli Stati alleati?

Sulle motivazioni della missione delle nostre forze militari in Afghanistan si è molto detto e discusso. Alla fine, dopo le guerre fondate sulle bugie come in Iraq, lo hanno capito un po' tutti: la democrazia non la si esporta, la si costruisce con un doloroso e lungo processo che appartiene tutto al paese in cui essa ha modo di realizzarsi, in contesti unici e peculiari, pur con l'aiuto di interventi di varia natura a cominciare da quelli umanitari, con esclusione di quelli di forza.

Ultimo aggiornamento Martedì 30 Ottobre 2012 14:22
 
Condividi