ALPINISMO. SIMONE MORO A 8035 METRI DOVE ANCHE ALLA NOTTE SI CHIEDE AIUTO Stampa
Scritto da Redazione   
Domenica 13 Marzo 2011 18:54

alpinismo 

di Michele Silvestri

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Verso mezzogiorno - ora locale della zona nord-ovest del Pakistan - dello scorso 2 febbraio, l’alpinista italiano Simone Moro, il kazako Denis Urubko e lo statunitense Cory Richards hanno scritto una pagina di storia dell’alpinismo: i tre scalatori sono stati i primi a raggiungere d’inverno quota 8035 metri del Gasherbrum II. Negli ultimi 24 inverni, infatti, sono falliti tutti i tentativi di scalare K2, Nanga Parbat, Broad Peak, Gasherbrum I e II: su ciascuno di questi Ottomila pakistani d’inverno ci sono cattivo tempo, freddo (temperature quasi sempre sotto i - 40 °C), vento e neve proibitivi.

 

I componenti la storica spedizione in realtà sono stati quattro: da Innsbruck il meteorologo Karl Gabl, triangolando le informazioni raccolte dai vari satelliti in orbita attorno alla Terra, forniva previsioni atmosferiche precise al minuto ai tre scalatori. L’austriaco fa questo lavoro da casa e per passione, senza accettare alcun compenso, a beneficio di tutti gli alpinisti che lo richiedono. Perché previsioni meteo dettagliatamente azzeccate sono state fondamentali per il successo della scalata invernale del Gasherbrum II? “La grande differenza fra gli Ottomila nepalesi e quelli pakistani - ha dichiarato Simone Moro - sta nelle finestre di bel tempo, che su questi ultimi si presentano raramente e quasi sempre sono brevissime. Così diventa decisiva la tattica. Noi, una volta acclimatati e dopo aver trovato la via di salita, quando eravamo rientrati al campo base da meno di tre giorni, abbiamo saputo da Karl che stava per arrivare una finestra di 30 ore di bel tempo. Trenta ore sono niente su montagne così enormi. Ma per la nostra spedizione, leggera e veloce, sono stati sufficienti. Infatti siamo subito saliti dal campo base fino a campo 2, quota 6430 metri, ancora col maltempo e quel breve intervallo senza nubi lo abbiamo usato per piazzare campo 3 a quota 6950. Da lì il mattino dopo siamo saliti fino in vetta, anche se normalmente una buona acclimatazione prevedrebbe sbalzi meno forti”.

 

L’italiano Simone Moro sarà ricordato in questo sport, tutto fatica e resistenza alle condizioni estreme, insieme con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli (componenti della spedizione nazionale guidata da Ardito Desio nel 1954: i primi a scalare gli 8611 metri del K2, la seconda montagna del mondo), Riccardo Carrel e Mirko Minuzzo (della spedizione guidata da Guido Monzino nel 1973: i primi italiani sull’Everest, la più alta vetta del mondo con i suoi 8850 metri), Reinhold Messner (nel 1978 il primo a salire e scendere in solitaria gli 8125 metri del Nanga Parbat e due anni dopo il primo a scalare da solo e senza ossigeno l’Everest), Goretta Traverso, nel 1985 la prima italiana oltre gli 8000 (del Gasherbrum II) e ancora Reinhold Messner (nel 1986, a 42 anni, il “re degli Ottomila” completa la personale collezione scalando gli 8516 metri del Lhotse: in tutto è la 18a volta in cui tocca la vetta di una delle 14 montagne più alte della Terra).

Mi piacerebbe che qualcuno facesse mente locale e capisse che possiamo essere orgogliosi del nostro essere italiani - ha commentato il bergamasco Simone Moro -. Oltre ai beni culturali e architettonici, alla bellezza dei paesaggi, abbiamo sempre avuto anche grandi uomini di avventura, a partire da Cristoforo Colombo. E poi larga parte della storia dell’aeronautica è scritta in italiano: basti pensare a Umberto Nobile e alla sua traversata del Polo Nord in dirigibile con Amundsen”.

 

L’uomo e l’avventura, l’uomo e la Terra, l’uomo e la natura. Quella più vera, selettiva, crudele e insieme più straordinaria così come dalle pagine de ‘Il canto delle manére’ di Mauro Corona

Fuori nevicava così fitto che la neve cadendo faceva rumore. Nel cadere era come un frusciare di grandine fina, come strascinare un lenzuolo di seta sulle foglie dell’autunno. Ormai ce n’era più di mezzo metro. Si poggiava su quella vecchia, indurita dal gelo delle notti senza fine, sfiorata di giorno da un sole pallido e debole come un amore che sta per finire.

Intanto arrivava dalla notte come un abbaiare di cani lontani, perduti nel buio. Bonaventura li sentiva. E li ascoltava come ascoltava i crac degli alberi. Era caprioli. Imprigionate dalla grande nevicata, le povere bestie chiedeva aiuto alla notte, al bosco, a Dio, che venisse a liberarle. O che li aiutasse almeno a morire. Con quelle nevicate lì, non solo gli alberi si spacca ma anche le bestie. Camosci, caprioli, cervi si trova in difficoltà, fatica a muoversi, a camminare. Indeboliti, senza mangiare, cade dai precipizi perché gli trema le gambe. Oppure viene strascinati giù dalle valanghe e si trova le ossa in estate, quando le valanghe sciolgono le gobbe e le fa vedere. Tutte le notti di grandi nevicate si sente i lamenti delle bestie. Solo volpi e martore resiste a quelle notti, ma piange anche loro se non trova da mangiare”.

Ultimo aggiornamento Domenica 13 Marzo 2011 19:16
 
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