IL TORMENTO DI SCIASCIA Stampa
Scritto da Redazione   
Lunedì 28 Marzo 2011 17:08

IL TORMENTO DI VIVERE

IN UN PAESE

DOPPIAMENTE INGIUSTO

 

Intervista di Carlo Vulpio

a Matteo Collura

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[intervista esclusiva a Sudcritica n. 120 del 1997]

Se persino dal Sud più arretrato e dimenticato è venuto fuori un Leonardo Sciascia, vuol dire che esiste la possibilità di non morire nella marginalità. [...] Se aveva qualcosa da dire, non si poneva il problema delle polemiche che le sue parole potevano scatenare. In un Paese nel quale gli intellettuali mediano, facendo quel che già fanno i politici, Sciascia afferma che la verità va rivelata e fa dell’insegnamento di Montaigne quasi una religione

 

 

Ho conosciuto Matteo Collura nella primavera del 1990, nella redazione Cultura del “Corriere della Sera”, dove mi chiamò Raffaele Fiengo. Ero appena entrato nel “tempio” del giornalismo italiano, non dovevo dimenticarmene nemmeno per un attimo, pensai. Ma per fortuna capitò che me ne dimenticassi spesso e questo mi aiutò a conoscere meglio e ad apprezzare di più le persone con cui avevo a che fare. Matteo Collura, per esempio, fino ad allora era per me “il più giovane autore italiano ad aver pubblicato un libro nella prestigiosa collana ‘I Coralli’ della Einaudi”. Il suo Associazione indigenti, scelto personalmente da Italo Calvino, era infatti uscito nel 1979, quando Matteo aveva 34 anni. Una grande cosa. Destinata tuttavia a rimanere senza respiro, se un giorno d’agosto in redazione Matteo non si fosse esibito in una straordinaria imitazione di Adriano Celentano, cantando “Una carezza in un pugno”. Non so dire perché, ma fu in quel momento che decisi di seguire sempre con grande attenzione ogni riflessione che a Matteo Collura capitava di fare su Leonardo Sciascia, uno scrittore che mi ha formato e fatto crescere. E ora che Matteo ha scritto Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia (Longanesi, pagine 391, lire 32.000), intervistarlo per “Sudcritica” è motivo di doppia soddisfazione. [c.v.]

 

SUDCRITICA - Com’è possibile, ti chiedi nel tuo libro, che da un paese come Racalmuto (Rahalmut, in arabo: casale distrutto) possa venir fuori uno Sciascia? Un interrogativo retorico, mi pare... 

 

Sì, per dire che non esistono luoghi privilegiati. Perché se persino dal Sud più arretrato e dimenticato è venuto fuori un Leonardo Sciascia, vuol dire che esiste la possibilità di non morire nella marginalità. Mi piacerebbe sapere che questa biografia di Sciascia, in mano a uno studente, diventi una speranza, uno sprone, la fine di un alibi. La lontananza dai centri editoriali e culturali, la perifericità del Sud, non possono più essere accampate come giustificazione per lasciarsi andare. Al contrario, vanno utilizzate come stimolo per fare e fare bene.

 

Sciascia, scrivi tu, non si lascia vincere dall’ambiente in cui va crescendo. I libri lo salvano.  

 

E’ stato proprio così, e non solo per lui, credo. I libri come corda di salvataggio, la zattera per non naufragare. Sciascia aveva letto Manzoni e i francesi quando era ancora un ragazzino. Adulto, riuscirà a coniugare la razionalità degli illuministi francesi con la passionalità dello scrittore mediterraneo. E poiché non si porrà mai l’obiettivo del guadagno - cosa che in Italia hanno fatto solo in due, Sciascia e Pasolini - come scrittore raggiungerà un vero e proprio stato di grazia.

 

Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Vitaliano Brancati. Che cosa accomuna Sciascia a ciascuno dei tre?

 

Sciascia e Pasolini parlano la stessa lingua eretica e sostengono che l’intellettuale ha il dovere di essere sempre “contro” il potere. Con Calvino, c’è in comune l’idea della scrittura come strumento di riscatto. Con Bran­cati, invece, la scrittura come di­sin­canto, il sorriso amaro di fronte alla drammaticità della situazione siciliana. Ma non dimentichiamo Luigi Pirandello, per Sciascia una “scoperta” eccezionale, tanto da fargli dire che “le situazioni pirandelliane esistono già in natura”.

 

Ma è Alessandro Manzoni il vero punto di riferimento di Sciascia...

 

Non c’è dubbio. Manzoni è per Sciascia la letteratura come imperativo categorico, la scrittura come azione morale, concepibile solo se volta al miglioramento degli uomini. Vorrei ricordare qui il giudizio di Sciascia su I promessi sposi: “Contengono già - diceva - tutto quanto noi conosciamo: la mafia, le Brigate rosse, l’ingiustizia, l’emigrazione”. Verissimo. Dal doppio­giochismo al trasformismo, ne I promessi sposi ci sono i tratti tipici del nostro carattere nazionale. E il vero personaggio italiano è don Abbondio.

 

Si è mai defilato, Sciascia?

 

Mai. E se aveva qualcosa da dire, non si poneva il problema delle polemiche che le sue parole potevano scatenare. In un Paese nel quale gli intellettuali mediano, facendo quel che già fanno i politici, Sciascia afferma che la verità va rivelata e fa dell’insegnamento di Montaigne quasi una religione. E manterrà questo atteggiamento anche quando avrà raggiunto il successo. Ovvio che da questa scelta, a forte carica etica e opposta a quella dei professionisti della politica, siano poi scaturite polemiche roventi, alcune delle quali hanno fatto epoca. Contro le due “chiese” - Dc e Pci -, per Sciascia traditrici degli ideali che dovevano caratterizzarle. Contro i “cretini di sinistra” che affossavano la creatività e la libertà di pensiero propria della sinistra. Contro gli ipocriti che reagirono scandalizzati quando Sciascia affermò di essere “né con questo Stato né con le Br”. Contro i carrieristi che sventolano le bandiere dell’antimafia. Ma, appunto, sventolano solo le bandiere.

 

“Tutto legato, per me, al problema della giustizia”, ha scritto Sciascia. La giustizia è stata per lui un’ossessione?

 

Di più, quasi una forma di nevrosi, che gli faceva ripetere spesso di essere nato “in un Paese doppiamente ingiusto”. Nel quale, all’ingiustizia di stato sociale, si aggiungeva quella prodotta dalla Giustizia. Credo di non sbagliare se dico che tutti i suoi libri possono essere considerati un solo grande libro sulla giustizia. Per Sciascia, l’amministrazione della giustizia è un fatto determinante per la vita degli uomini. “Certe cose a un uomo non dovrebbero accadere”, si legge ne L’idiota di Dostoievskij. Ecco, è da lì che parte Sciascia per le sue riflessioni sulla giustizia. Fino a battersi, tanto per citare due casi clamorosi, per l’innocenza di Enzo Tortora e di Adriano Sofri.

 

Abbiamo detto dei libri, ma anche il cinema ebbe una grande influenza nella formazione di Sciascia.

 

Forse incise più il cinema dei libri. Sciascia era un divoratore di film. Del resto, quando era giovane lui, il cinema era l’unica vera finestra sul mondo. Ma come spesso capita agli intellettuali, dopo un po’ tornò di nuovo ad amare di più i libri. Ma poco prima di morire, per un film ha pianto come un bambino. Accadde che Giuseppe Tornatore mi telefonò e mi disse che avrebbe avuto piacere se Sciascia avesse visto il suo film “Nuovo cinema Paradiso”, che allora non aveva ancora vinto l’Oscar. Organizzammo apposta per lui una proiezione: c’ero io, mia moglie, Domenico Porzio, Ferdinando Scianna e Tornatore. Alla fine, anche per colpa della malattia che aveva indebolito le sue difese di fronte alle emozioni, Sciascia pianse a dirotto. Quel film lo aveva riportato alla sua infanzia, “era la sua infanzia”.

 

Per conoscere un autore, si dice, a volte basta leggere uno solo dei suoi libri. Nel caso di Sciascia, quali sono i primi tre libri che dovrebbe leggere chi di Sciascia sa poco o nulla?

 

E’ difficile rispondere, ma ci provo. Nell’ordine: Morte dell’inquisitore, Alfabeto pirandelliano, A ciascuno il suo.

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento Sabato 02 Aprile 2011 17:03
 
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