SGUARDI OBLIQUI E IPOCRISIE NEL MARE NOSTRO Stampa
Scritto da Redazione   
Martedì 29 Marzo 2011 16:40

 di Francesca Di Ciaula                 

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Davanti agli sconvolgimenti nel Maghreb e in Egitto, l'Occidente è rimasto sconcertato, interdetto. Gli Stati Uniti sono entrati in punta di piedi con parole caute e l'Europa per qualche tempo è stata a guardare, timorosa di quei sovvertimenti di governi autoritari, assetti stabili, ottime  condizioni per realizzare accordi e trattati. Oggi il nostro Mediterraneo non è mare di pace, i suoi cieli sono attraversati da missili, tornado, caccia e specialissimi bombardieri americani invisibili ai radar.

Il Mediterraneo non ha pace da un bel pezzo di storia. È via di fuga ed anche tomba per i dannati delle carrette del mare, che sulle nostre coste approdano per proseguire il viaggio verso il nord. Volti anonimi, senza storia né diritti, sono divenuti oggetto di  più provvedimenti del governo italiano, che ha legalizzato i respingimenti in mare. Grazie al vergognoso trattato con la Libia infine, migranti provenienti dall'Africa o dall'Asia, senza fare distinguo per i richiedenti asilo, sono stati trattenuti in condizioni orrende nelle carceri libiche, veri campi di concentramento, con  palese violazione dei diritti umani. Il governo italiano ha chiuso occhi e orecchie a queste grida che sono arrivate fin qui grazie a messaggi e documenti filmati di alcuni migranti prigionieri. Oggi la questione della Libia, mette in evidenza le colpevoli sordità del governo italiano, i nascosti intendimenti e le opache prese di posizione nella sottoscrizione di accordi con un dittatore ed anche l'assenza di coerenza nella politica estera degli stati europei, condotta spesso all'insegna dell'occasione affaristica ed oggi assunta nei dibattiti ai ranghi di “realpolitik”.

Questa politica attenta solo agli interessi economici, non nasce con questo governo. Non appartengono solo a questo governo forme di amicizie e accordi. Sin dagli anni Settanta con trattative, intermediazioni di servizi segreti, finanziamenti di diverso tipo, l'Italia ha avuto in Gheddafi un interlocutore di primo piano e paesi come Francia e Italia da sempre sono presenti nel Maghreb per investimenti economici. Negli ultimi decenni di politica estera italiana, si è sviluppata una pratica di incontri degli stati-nazione dell'Occidente con i regnanti di “democrature”, autoritarismi dalla facciata democratica di libere consultazioni elettorali. Accordi e trattati hanno stabilito pacifiche relazioni “di amicizia”. L'ultimo da noi sottoscritto non è stato ancora stracciato.

Mediterraneo, agorà di affari e compravendite, dove il ruolo dei paesi arabi è nel consumo o  serbatoio di mano d'opera, acquirenti di prodotti finiti, come armi ed aerei in cambio dell'oro nero. In questo l'Occidente si è proposto in tutta la sua superiorità con un modello di sviluppo economico e libero mercato che si coniuga con la parola “progresso”. Domanda di consumo invece di una domanda che interpella l'Altro, spazio di incontro e confronto.

Poi c'è stato l'11 settembre e tutto è diventato più difficile da capire, più arduo parlare di pace, un discorso sempre più difficile da comprendere e il terrorismo con il volto mostruoso delle stragi, ha innalzato barriere, sostenuto appropriate motivazioni a difesa di interessi consolidati, per gli Stati gelosi custodi di quegli interessi. Eppure per decenni ci siamo raccontati un'altra storia, quello di uno spazio di mare attraversato da riconoscimenti e spinte verso l'Altro poco conosciuto e diverso,  incontro tra culture, possibilità di un dialogo tra opposte sponde, Oriente e Occidente.

         Luogo di movimenti e traffici senza sosta, da secoli il mare nostrum è stato questo luogo mentale, di spinte verso saperi altri, incipit di progetti culturali e politici di cooperazione tra  popoli. Così, in un processo parallelo a quello dei rapporti economici, per tutti gli anni Novanta e oltre, i paesi dell'Occidente hanno preso parte a tavoli programmatici, avviato iniziative su proposte progettuali per una coerenza nelle relazioni tra i paesi dell'UE e i paesi dell'area meridionale mediterranea. Nelle conferenze euromediterranee dopo la Dichiarazione di Barcellona, a cominciare dal 1995, per dieci anni sono stati ribaditi concetti quali partenariato per lo sviluppo, pace, stabilità politica e diritti umani. Tacciati, forse non a torto, di retorica e ambiguità, questi sforzi hanno dato vita o rafforzato programmi di scambio e cooperazione. Nelle città sono stati istituiti assessorati alle politiche e alle culture del Mediterraneo, promossi dibattiti e conferenze in spazi accademici e non, tuttavia spesso circoscritti a élite culturali. Spazi forse angusti, interlocutori forse un po' miopi.

         Mediterraneo di promesse beffate e rimozioni, difficoltà a fare i conti col passato, Mediterraneo spazio geopolitico e culturale dove il Nord del mondo incontra i Sud del mondo. Un mare di miglia per incontrarsi, le distanze mantenute, ipocrisia dell'incontro, strumentale apologia dei relativismi culturali. Il Mediterraneo è stato tutto questo.

         All'interno di un discorso di incontro e equilibrio tra questi due approcci - quello economico e politico, condotto esclusivamente dai rappresentati dei governi, e quello culturale che ha per interlocutori la società civile - l'argomentazione mai dismessa della sicurezza nazionale e della minaccia del terrorismo è stata la mistificazione per eccellenza utilizzata. Se la presenza di rivalità interne e conflittualità mettevano a rischio la stabilità di quei paesi, rendendoli partner poco affidabili, diventava necessario allora per i paesi dell'Occidente  fare accordi con quei paesi arabi in cui ordine sociale e stabilità politica era garantita. Il fatto poi che questa stabilità sia stata di fatto realizzata da autocrati che hanno controllato la vita sociale e politica della società civile con più che efficienti apparati di sicurezza e gestito la vita pubblica, allontanato pericoli di insurrezioni con la complicità dell'esercito, sembra non abbia mai avuto grandi conseguenze sul piano delle relazioni internazionali, delocalizzazioni produttive, compravendite di petrolio, gas, armi e prodotti dell'industria occidentale.

         Oggi dieci anni dopo l'11 settembre, invece la domanda di libertà è nata dentro questi Stati,  sostenuta da un largo settore di popolazione giovane, alta percentuale rispetto alla totalità della popolazione; una domanda veicolata dalla moderna tecnologia della comunicazione, la rete del web. Una popolazione giovane, educata ai miti occidentali mediatici, che convive tra vecchie forme residenziali e abitudini di vita e nuove forme di spazi e relazioni sociali, ha denunciato la violenza di dittature dei raìs, coperte da apparati istituzionali formalmente democratici. Al di là del nostro mare c'è questo: un bisogno di libertà e giustizia, una diversa radice culturale ed insieme forme di modernità acquisite soprattutto da fasce giovani di popolazione.

         Così accade che dieci anni dopo Ground Zero, le contrapposizioni che sono da quel tremendo evento scaturite, di un Occidente in guerra con il lato più radicale e violento dell'integralismo islamico, possano rivelarsi uno scenario traballante e inaffidabile. Inaffidabile anche per la politica degli USA, la nuova politica di Obama, che ha riformulato i rapporti col mondo arabo con il celebre discorso al Cairo, evocando uno scenario di pace in una prospettiva di reciproco rispetto. Eppure la pace costruita sulle macerie di Ground Zero, non è la sola pace di cui oggi possiamo parlare, quella che possiamo oggi costruire.

         La minaccia del terrorismo invece ha fornito un buon appiglio a Gheddafi, che ha accusato  al-Qa'ida di fomentare l'insurrezione contro il suo regime. E il terrorismo ha fatto da buon contrappeso sul piatto della bilancia nelle negoziazioni della Libia con i paesi occidentali. Dopo aver condannato il terrorismo islamico all'epoca degli attentati alle Twin Towers, il dittatore si è proposto alleato dell'Occidente e baluardo all'interno del mondo arabo contro la jiahd degli integralisti islamici terroristi, quindi nel “Trattato di amicizia” stipulato col governo italiano, difensore del nostro paese sul fronte di una guerra dichiarata all'“immigrazione clandestina”. Le parole della violenza si rivestono delle parole della pace. Questo è accaduto sulle sponde del Mediterraneo.

         All'interno di questo lacerato scenario mondiale si sono riproposti pregiudizi e vecchi schemi mentali. I paesi occidentali con difficoltà hanno saputo guardarsi dentro, riconoscere nel messaggio culturale della postmodernità di cui si fanno portatori e nella presunta mancata laicità dei paesi arabi, un arroccamento sulle sponde della “civiltà e del progresso”, portatori sani della forma democratica di governo e giusti riconoscimenti sociali.

         Abbiamo riconosciuto retaggi antichi, elementi culturali e luoghi, scenari di identiche storie (Matvejevic), rivendicato la conoscenza e l'incontro come strumenti per il reciproco riconoscimento per porre fine a discriminazioni e conflitti, abbiamo individuato nella diversità culturale un potenziale capace di coinvolgere la società civile dal di dentro, attraverso lo sguardo rivolto all'Altro, alle storie individuali, alla domanda di cui ogni individuo si fa portatore. Eppure oggi che gli sguardi si moltiplicano e gruppi sempre più ampi di individui pongono questa domanda di riconoscimento a voce alta e che invece di gridare slogan islamici, come noi ci aspetteremmo, chiedono giustizia e diritti civili, oggi che vediamo le nostre coste invase da persone che fanno appello ai diritti umani, restiamo un tantino straniti e ci sorprendiamo ad interrogarci su cosa intendiamo per civiltà.

         Così adesso che viene meno la narrazione totalizzante di un nemico comune che è il terrorismo islamico, solo adesso, davanti ad uno scenario di crisi che si allarga a più paesi europei e inizia a toccarci dolorosamente da vicino, incominciamo a riflettere: qualcosa non torna, la narrazione ininterrotta del progresso lineare, prospettiva di crescita infinita, mostra la corda e rivela tutta la sua illusorietà di un presente identico a se stesso. Forse tutto questo sommovimento nel mondo arabo porterà a nuove contrapposizioni, nuovi nazionalismi e particolarismi. È un rischio grande.

         Oggi desideriamo che i paesi insorti del Mediterraneo trovino la propria voce, che reclama libertà e giustizia, senza un intervento occidentale, che importi valori e forme di governo con qualche azione militare. Pluralità di voci e popoli del nostro mare che oggi cercano la strada difficile del processo democratico. A queste voci sempre più numerose e diverse l'Occidente non può non rispondere col linguaggio del diritto internazionale, con il riconoscimento pieno di ogni migrante nella sua persona e dei diritti di cui è portatore, della storia da cui fugge e quella da continuare. È questo il dialogo difficile di pace da costruire nel Mediterraneo, il racconto che deve nascere sulle sue sponde.

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 30 Marzo 2011 22:56
 
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