=RIVISITAZIONE. I FRATELLI CERVI ALL’OMBRA DEL SOL DELL’AVVENIRE= Stampa
Scritto da Redazione   
Martedì 28 Febbraio 2012 20:49

adelmo_cerviAdelmo Cervi, il Partito Comunista

l’uguaglianza sovietica

E' per questo che si è fatto ammazzare mio padre?

di Francesca Di Ciaula

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Ho incontrato per la seconda volta, a distanza di qualche anno la figura di Adelmo Cervi, figlio di Aldo Cervi, uno dei sette fratelli fucilati nel 1943 dai fascisti della repubblica di Salò. Qualche anno fa ebbi modo di sentir parlare questo simpatico signore canuto nel film-documentario Il sol dell'avvenire di Gianfranco Pannone. Lo ricordo con tuta da ciclista accanto alla sua bicicletta mentre raccontava dell'esperienza dell' “Appartamento”, una comune che Adelmo Cervi condivise   per breve tempo con alcuni (tra questi Alberto Franceschini e Prospero Gallinari) fuoriusciti dal Partito Comunista, il mito della Resistenza tradita a unirli, e che in seguito sarebbero entrati a gamba tesa nell'eversione armata col nome di Brigate Rosse.

Se la figura di Adelmo Cervi era di per sé carica di suggestioni e stimolazioni per una riflessione storica fuori da stereotipi intorno a un filo rosso che il film tentava di riavvolgere a partire dalla Resistenza, per approdare al 1960 con i morti di Reggio Emilia durante la manifestazione contro governo Tambroni cui aderirono ex partigiani, fino alle BR, con tanto di corredo di armi a fare da ponte (l'arma usata nel sequestro Macchiarini era una quelle mai consegnate dai partigiani all'indomani di quella guerra civile), ritrovare la voce di questo figlio dell'Emilia rossa in Prima lezione di metodo storico a cura di Sergio Luzzato (Editori Laterza), nelle pagine delle storico Alessandro Casellato, pensate intorno all'uso di una fonte orale, è stata una vera sorpresa.

L'uso della fonte orale nella ricostruzione di una pagina di storia d'Italia. E la storia dei fratelli Cervi divenuta ben presto mito per l'efferatezza del fatto e alcuni aspetti legati ai personaggi e al contesto, commosse e interessò tanta parte del mondo, grazie alle memorie di Cervi padre, Alcide Cervi, raccolte in I miei sette figli. Il libro, uscito nel 1955 con la prefazione di Piero Calamandrei, scritto da un giornalista de “l'Unità”, Renato Nicolai, raccoglieva la testimonianza e le memorie di papà Cervi, destinato a diventare fin alla fine dei suoi giorni unico cantore di quella tragedia.

Ciò che colpisce nella storia dell'eccidio dei sette fratelli, che non fu mai rivendicato dai repubblichini per l'efferatezza del fatto (i corpi furono sepolti di nascosto dai fascisti), non è la difficoltà della ricostruzione storica. Qui lo storico non ha molto da aggiungere al fatto, né attribuire nuovi moventi o scopi alle azioni. È l'uso della testimonianza orale dei figli di Aldo Cervi, che in un certo modo curva la visione e la memoria, costringe ad uno sguardo a più direzioni, la narrazione monolitica divenuta mito fa i conti con la dimensione privata della vita di coloro che a quella storia in qualche modo e a diverso titolo hanno preso parte.

Ne Il figlio dell'eroe - il contributo di Casellato al volume curato da Luzzato - a parlare è colui che ha vissuto accanto alla memoria a sé estranea di un padre mai conosciuto (Adelmo aveva quattro mesi quando suo padre fu ucciso) e la sorella Antonietta, cui sono mancate testimonianze dirette e  che ha dovuto invece raccattare in giro per il paese, da chi fu allora contemporaneo, le dimensioni reali della propria famiglia, recuperare brandelli di memorie degli slanci, gli aspetti caratteriali di un padre eroe, in una storia raccontata da altri.

Per una storia che ha commosso tanti, divenuta simbolo della Resistenza, non ci furono narrazioni personali. Non furono le donne della casa a raccontare, nulla fu chiesto loro, nessun racconto in cui fossero anche loro figure importanti. Coloro la cui vita fu travolta dalle grosse difficoltà economiche all'indomani della scomparsa di sette uomini di casa Cervi, si trovarono a dover raccogliere l'eredità di personaggi, in questo caso di Aldo Cervi, così singolari e audaci, dalle ardite e più moderne idee nella coltivazione della terra e ideali egualitari sociali e politici; l'uguaglianza sociale accanto a quella del livellamento sociale realizzato nella Russia sovietica, che si sarebbe rivelato per fortuna improbabile nel nostro paese ricostruito sulle rovine della guerra.

E pur nel continuare a difendere quell'ideale di eguaglianza sociale, il figlio di Aldo Cervi si trovò a rigettare il portato politico di un partito, quello comunista italiano, che al tempo della clandestinità tra i monti aveva preso le distanze da quei fratelli poco ligi a seguire le direttive di comando e che adesso invece ascriveva a sé la lotta partigiana di quei sette combattenti trucidati; un partito, il PCI, che aveva inviato Adelmo a studiare in quella Russia che era stata per suo padre “il sol dell'avvenire”. Adelmo Cervi ritornò dalla Russia rifiutando solamente l'idea che in quel regime suo padre avrebbe potuto far carriera da burocrate. Colpisce infatti nel resoconto dell'intervista nel testo di Casellato, una domanda angosciosa che ritorna: “E' per questo che si è fatto ammazzare mio padre?

A fare i conti con la memoria, come spesso accade, rimasero da soli nel privato delle loro vite, oltre al vecchio padre, le mogli e i figli dei fratelli Cervi, anche quando la storia aveva già scritto pagine su questi figli della Resistenza civile partigiana. È vero, rimanevano pieghe oscure riguardo al difficile rapporto dei fratelli Cervi con il partito comunista, reputati un po' anarchici, ma la storia era stata scritta in modo lineare anche grazie a quel libro di Alcide Cervi e Nicolai, tradotto in diverse lingue e più di una volta rimaneggiato a seguito delle mutate posizioni politiche del PCI nei confronti dell'Unione Sovietica.

Tuttavia il libro, scrive Casellato, ebbe il merito di far parlare per la prima volta un contadino, di raccogliere il pensiero e le parole di un esponente di quelle classi subalterne che solo un giornalista, piuttosto che un intellettuale, a quei tempi poteva raccogliere. Per la prima volta la cultura orale si affacciava sulla storia con la maiuscola. Eppure anche in quella storia rimasero fuori altri soggetti deboli, le donne e i figli che si trovarono nella loro vita a fare i conti non con il ricordo dei padri desunto dalle loro vite e dalle memorie di una piccola comunità, ma con figure calate all'improvviso nella grande storia. A loro toccò fare i conti, ognuno per proprio conto, con una mancanza difficile da affrontare nelle reali dimensioni.

Mi è piaciuto rileggere le parole di Alessandro Casellato. “A guardar bene, dunque, I miei sette figli fu il prodotto ... di un patto tacito che coinvolse molti più soggetti in un complesso gioco di seduzione reciproca: la famiglia Cervi, che elaborò sulla scena pubblica il proprio lutto privato e trasformò una perdita in un valore; il partito comunista, che promosse il libro e lo divulgò; il vasto pubblico dei lettori che vi si riconobbe e fece del suo autore un “eroe” popolare, della sua famiglia un modello di virtù umane e civili …  I sopravvissuti all'eccidio - Alcide, le vedove e gli orfani - finirono per essere parte di questo allestimento vivente: oggetti e soggetti, gratificati e insieme espropriati della loro vita privata, dopo essere stati amputati dei loro affetti”.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 29 Febbraio 2012 12:58
 
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