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Scritto da Redazione   
Giovedì 03 Marzo 2011 13:27

LE PAROLE DEL PRESIDENTE

DAL DISAGIO ALLO SGOMENTO

di Francesca Di Ciaula

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Si fa fatica ad ascoltare le parole del presidente del Consiglio sulla scuola statale e gli insegnanti che vi lavorano, che  vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli che vogliono inculcare i genitori” ed allo stesso tempo tenere bene a mente la scuola com'è oggi, il suo mandato di scuola pubblica dall'identità laica e pluralistica.

Col passare del tempo e tutta la fatica, le incertezze che attengono ai lunghi processi civili e culturali, la scuola ha dovuto fronteggiare difficoltà ed incertezze fatte di storie e gesti quotidiani, per accogliere le diversità culturali e sociali, che ogni giorno vi fanno ingresso e con consapevolezza dare testimonianza della pari dignità di vissuti di ogni  alunno o studente. Lo hanno fatto e continuano a farlo insegnanti sottopagati rispetto ai colleghi europei, inclusi gli insegnanti precari che anche quest'anno hanno rimediato un incarico. Si continua a lavorare in questo modo nelle scuole statali, nonostante i tagli che hanno portato meno soldi alla scuola pubblica, meno, molti meno che in quella privata. Così ad un indiscusso e sbandierato diritto di scegliere il tipo di scuola per i propri figli, si affiancano sempre più spesso critiche di inefficienza alla scuola pubblica. E non importa se poi questa è lasciata da sola a gestire situazioni difficili, mentre continua a sostenere il proprio mandato: corrispondere ai bisogni di tutti, di ciascun alunno, anche in classi sovraffollate, frequentate da alunni nuovi immigrati o studenti difficili, che portano con sé problematiche di disagio sociale e alimentano gli alti tassi di dispersione scolastica della nostra scuola nel sud Italia. 

Si fa fatica a riascoltare quelle parole, che gettano in discredito la scuola pubblica, pronunciate da una delle massime cariche istituzionali dello Stato, quando egli oppone le condizioni per la realizzazione personale, l'aspirazione al benessere e alla felicità,  e poi i “principi inculcati dai genitori in famiglia”, all'insegnamento impartito nella scuola statale. Un corto circuito mentale che fa piazza pulita dei principi e valori democratici che sono a fondamento della nostra scuola pubblica.

 

Parlare della scuola pubblica significa invece parlare di uno spazio di crescita, significa parlare di una scuola che ha il compito di  promuovere la persona e le sue potenzialità. Quando la scuola non si appiattisce sui livelli di entrata, sulle diversità sociali, può avere senso parlare di uguaglianza di diritti, uguaglianza nelle possibilità di accesso agli strumenti indispensabili per esercitare il più consapevolmente possibile il propri diritti di cittadino, diritti di libero pensiero ed espressione, di libertà di parola, di accesso al lavoro, diritti iscritti nella Carta Costituzionale.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, sancisce l'articolo 3.  

 

La scuola pubblica statale non può non essere la scuola di tutti“La scuola è aperta a tutti”, si legge all'articolo 34 della Costituzione. “La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti”. Queste le parole che Pietro Calamandrei pronunciò in un famoso discorso del 1950 al 3° Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale.  Per questo la scuola pubblica non può che essere laica e pluralistica. 

Si fa allora fatica a sentire quelle parole del premier, se si considera lo spazio di cui gode la religione cattolica nella scuola statale, spazio unico e non pari a nessun altro credo confessionale. È la nostra, una scuola in cui può essere esercitato solo l’esercizio del diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica”, piuttosto che quello di una libera scelta, libera sottoscrizione di avvalersi di un insegnamento confessionale.  Tuttavia in questa scuola statale, a detta del premier ideologicamente orientata dagli insegnanti, hanno accesso ad un incarico pubblico pagato dallo Stato, insegnanti di religione selezionati dai vescovi, con titoli non rilasciati dallo Stato.

 

Si fa allora fatica a capire questi discorsi, dettati dall'arroganza di chi disconosce il lavoro culturale e sociale di una categoria di lavoratori sottopagati rispetto ai loro colleghi europei: gli insegnanti. Eppure fa impressione ascoltare quel discorso. Una scuola pubblica così scarsamente e irrispettosamente considerata, svilito il suo mandato istituzionale democratico, ridotto il suo ruolo sociale di emancipazione, di uguaglianza di opportunità (che poi dovrebbe significare corrispondere in diversa misura a diversi bisogni), diventa buona pedina da giocare per guadagnare consensi all'interno di un gruppo sociale ideologicamente schierato. Solo che qui c'è qualcosa che non convince. C'è che il credo confessionale, pensiero politico con i risvolti sociali che ne derivano, entra a far parte di un mercato di scambio.

Per questo, qualche giorno fa, abbiamo ascoltato con un certo turbamento, il plauso al presidente del Consiglio durante il convegno dei Cristiano Riformisti. Se poi prendiamo in considerazione la rapida operazione mentale, che deve aver attraversato la sala, di rimozione di fatti, quali gli incontri a base di sesso che hanno riguardato lo stesso oratore-premier o la banale razionalizzazione della separazione pubblico-privato, il disagio si trasforma in sgomento.

Ultimo aggiornamento Giovedì 29 Dicembre 2011 21:05
 
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