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Scritto da Redazione   
Venerdì 16 Marzo 2018 18:15

moro rs1Una strage senza misteri

Aldo Moro, tra i fondatori della Democrazia Cristiana, fu rapito il 16 marzo 1978 a Roma dalle Brigate Rosse. Il rapimento fu compiuto con un assalto, avvenuto in via Fani, all’auto con la quale Moro si stava recando in Parlamento dove stava per votarsi la fiducia al quarto Governo Andreotti, un governo di “solidarietà nazionale”, che per la prima volta nella storia d’Italia includeva il Partito comunista nella maggioranza, sia pure senza una presenza di ministri comunisti nel governo. Nell’agguato vennero uccisi i due carabinieri che erano sull’automobile di Moro, Oreste Leonardi e Domenico Ricci, e i poliziotti che viaggiavano nell’auto di scorta, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

Moro venne ucciso il 9 maggio 1978: il suo corpo fu ritrovato abbandonato in una Renault 4 rossa parcheggiata in Via Caetani,moro rs2 a poche centinaia di metri dalle sedi storiche della Dc e del Pci. Durante i 55 giorni di prigionia gli esponenti di Dc e Pci (ne erano segretari Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer) si rifiutarono di trattare la liberazione di Moro, trincerati dietro la ‘linea della fermezza’. L’unico capo politico che abbia sostenuto, all’epoca, la necessità di trattare per salvare la vita di Moro fu il socialista Bettino Craxi.

A quarant’anni dal rapimento e dalla morte di Aldo Moro, non si sono fatti molti passi avanti rispetto ai “misteri” che ancora circondano quell’evento estremamente duro della vita della Repubblica italiana. Probabilmente, perché - come per altri gravissimi fatti della storia d’Italia, come per esempio la strage di Piazza Fontana - i “misteri”, alla fine, non ci sono: dubbi e incongruenze delle vicende più drammatiche dal punto di vista istituzionale finisce per scioglierli il tempo, ma la trama, il canovaccio, si scopre via via che era ben nota da subito. Benché ci si affidi oggi, per le rievocazioni e la memoria collettiva, ai banalizzanti racconti dei terroristi di un tempo, divenuti da tempo attempati "storici" per il nostro uso e consumo.

frontespizio relazione minoranza I commissione inchiesta MoroPer questo, per ricordare la strage di via Fani, ancora una volta “Sudcritica” torna alle origini: si affida a qualche brano del saggio che Leonardo Sciascia pubblicò, con l'editore Sellerio, nell’agosto del 1978, a poche settimane dall’uccisione di Moro, L’Affaire Moro. Sciascia si occupò del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro anche successivamente, quando - nel 1979 - venne eletto alla Camera per i Radicali e divenne componente della prima Commissione parlamentare d’inchiesta che venne istituita sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. A conclusione dei lavori, redasse una Relazione di Minoranza che viene linkata qui per chi voglia leggerla.

Per chi avesse maggiori curiosità, è disponibile anche la terza Relazione (approvata nel dicembre 2017) della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro istituita nel maggio 2014 (chi voglia leggerla, la trova a questo link).

Sciascia si pose, nel libro e nella Relazione parlamentare, la domanda più importante cui si sarebbe dovuta dare risposta: perché Moro non era stato trovato durante la prigionia e perché non era stato salvato. Ricostruisce così le tappe più rilevanti di attività inconcludenti, omissioni, carenze di governo, forze di polizia, magistratura e servizi segreti in quei 55 giorni di prigionia. Conclude che vi erano state gravi responsabilità nella direzione e nel compimento delle indagini per la ricerca e la liberazione di Moro, ma che i tanti errori professionali, le lentezze, le inefficienze non dovessero essere ricercate solo nell’impreparazione di fronte al terrorismo. Per Sciascia, il Moro delle lettere di accusa alla DC che il “fronte della fermezza” liquidò con argomenti clinici cercava d’inviare messaggi per aiutare gli inquirenti nell’individuazione della sua prigione o perfino d’indicare i collegamenti e le protezioni internazionali di cui godevano le Br. Ma per la classe politica della ‘fermezza” egli era già morto.

Per L’Affaire Moro, 30 anni dopo la pubblicazione, Sciascia si è beccato un giudizio tanto pesante quanto inutile dallo storico e politico Miguel Gotor (parlamentare del Partito Democratico nella scorsa legislatura e candidato per Liberi e Uguali nelle elezioni del 4 marzo 2018, nelle quali non è stato eletto). Gotor è infatti curatore di un volume sulle lettere di Moro nella prigionia (Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, Torino, Einaudi, 2008) nel quale ha usato nei confronti di Sciascia parole molto dure. Come queste, per esempio: “Se le carte sono truccate, anche la partita interpretativa ne esce inevitabilmente falsata e allora la storia si riduce a una delle tante narrazioni possibili, un puro gioco linguistico e retorico, e neppure tra i più divertenti”. Ma è notorio che anche alle interpretazioni degli storici spesso fa velo la propria appartenenza politica.

 

 

Da L’Affaire Moro, di Leonardo Sciascia (Milano, Adelphi Edizioni, 1994) pp.53-64

Non credo abbia avuto paura della morte. Forse di quella morte: ma era ancora paura della vita. « Secoli di scirocco » era stato detto « sono nel suo sguardo ». Ma anche secoli di morte. Di contemplazione della morte, di amicizia con la morte. Ronchey aveva scritto: « E’ l’incarnazione del pessimismo meridionale ». Che cosa e, in che consiste, il pessimismo meridionale? Nel vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione - anche le idee e le illusioni che sembrano muovere il mondo - correre verso la morte. Tutto corre verso la morte: tranne il pensiero della morte, l'idea della morte. «Nonché un pensiero, il pensiero della morte e il pensiero stesso». Penetra ogni cosa, come lo scirocco: nei paesi dello scirocco.

Nelle case patrizie siciliane c'era, ingegnosamente escogitata credo nel secolo XVIII, una camera dello scirocco: in cui rifugiarsi nei giorni in cui lo scirocco soffiava. Ma una camera in cui rifugiarsi, in cui difendersi dal pensiero della morte? E peraltro dubito che quelle camere fossero vera difesa allo scirocco: prima che lo si avverta nell'aria, lo scirocco si e già come avvitato alle tempie, alle ginocchia.

Non credo abbia avuto paura della morte. Ma di quella morte... « Chi ha detto che la natura umana e in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché un affronto simile: mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letta la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi e poi hanno detto: "Va’ sei graziato". Ecco, uomo simile forse potrebbe raccontarlo. Di questo strazio e di questo orrore ha parlato anche Cristo. No, non è lecito agire così con un uomo » .

Si è agito così con lui. E anzi peggio: nell'oscura, tenebrosa, nascosta parodia dell’assassinio legale. E nessuna ragione avrebbe dovuto impedire il tentativo che ciò non accadesse: e tanto meno quella che è detta ragione di Stato, di uno Stato che ha cancellato lo strazio e l’orrore della pena di morte.

Moro ha sopportato questo senza impazzire.

Non era un eroe, né preparato all'eroismo. Non voleva morire di quella morte, ha tentato di allontanarla da sé. Ma c'era anche, nel suo non voler morire, e di quella morte, una preoccupazione, un'ossessione, che andava al di là della propria vita (e della propria morte). In questa preoccupazione, in questa ossessione, è forse da vedere l'inveramento di quella definizione di « grande statista » che fuori, in quel momento, per plateale mistificazione e in tutt'altro senso, gli elargivano. E tanto poco in questo tutt'altro senso era « statista » che quando parla di Stato e di ragion di Stato, nella lettera a Cossiga e in altre successive, intende tutto il contrario di un'entità che trascura o trascende l'individuo, il singolo, la sua particolarità e il suo « particulare ».

Lo Stato di cui si preoccupa, lo Stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossessione, io credo l’abbia adombrato nella parola « famiglia ». Che non è una mera sostituzione - alla parola Stato la parola famiglia - ma come un allargamento di significato: dalla propria famiglia alla famiglia del partito e alla famiglia degli italiani di cui il partito rappresenta, anche di quelli che non lo votano, la « volontà generale ». E in questa « volontà generale » c’è, nella concezione di Moro, un solo punto certo e fermo, da mantenere nella fluidità dei compromessi e delle contraddizioni: ed è la libertà.

Nella « prigione del popolo » Moro ha visto la libertà in pericolo e ha capito da dove il pericolo viene e da chi e come e portato. Forse se ne è riconosciuto anche lui portatore: come di certi contagi che alcuni portano senza ammalarsene. Da ciò la sua ansietà di uscire dalla « prigione del popolo »: per comunicare quello che ha capito, quello che ormai sa.

« Se non avessi una famiglia così bisognosa di me sarebbe un po' diverso » dice nella seconda lettera, diretta a Zaccagnini. Si noti: « un po' diverso ». Non molto diverso, il morire, dal continuare a vivere. Ma la famiglia ha bisogno, « il più grande bisogno ». E lo ripeterà ad ogni lettera, fino a dirlo « grave e urgente » nella lettera al presidente della Repubblica.

Ora queste affermazioni sul bisogno che la famiglia aveva di lui, bisogno grave e urgente, Moro sapeva bene che trovavano immediata smentita nella situazione oggettiva della sua famiglia: che di lui, della sua liberazione, del suo ritorno, aveva bisogno nella sfera degli affetti, non in quella patrimoniale e sociale. Peraltro, da meridionale, non credo potesse vedere come bisognosa - di denaro o di protezione - una famiglia come la sua. Un meridionale ai cui figli non manca il lavoro e le cui figlie hanno, oltre al lavoro, un marito; che lascia alla moglie una casa e una pensione e all'intera famiglia un buon nome, si considera come sciolto dal problema della famiglia e in regola con la vita e con la morte. E’ da pensare, dunque, che appunto perché trovavano immediata e oggettiva smentita Moro continuasse a martellare queste asserzioni sul bisogno della famiglia. Perché si pensasse, insomma, che voleva dire altro. E quando dice: « E’ noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte » (lettera pervenuta al « Messaggero » il 29 aprile), intende col « noto » sottolineare quel che noto non è: e che dunque altra ragione bisogna riconoscere alla sua lotta contro la morte. Del resto, nelle lettere alia famiglia - almeno in quelle che si conoscono - non c’è nulla che lasci intravedere preoccupazioni propriamente familiari. E si può obiettare che abbia usato l’argomento famiglia nel sentimento, nella sentimentalità, nel pietismo in cui gli italiani lo usano e cioè secondo la longanesiana boutade: « Sulla bandiera dell’italiano c’è scritto « io ho famiglia »; ma sarebbe un far torto alla sua intelligenza, alla sua misura, alla sua lucidità: qualità di cui - e si vedrà nel futuro che è già cominciato - ha dato prova, più che nella sua trentennale attività politica, nelle lettere dalla « prigione del popolo ».


Nel pomeriggio del 4 aprile alla redazione milanese del giornale « la Repubblica » perviene una lettera di Moro a Zaccagnini insieme al comunicato numero quattro delle Brigate rosse e ad un opuscolo a stampa che contiene la Risoluzione della direzione strategica.

La ragione per cui le Brigate rosse immettono nel giro dei grandi mezzi di diffusione il loro progetto strategico, che a regola di strategia avrebbe dovuto circolare tra adepti, forse è da cercare, oltre che nel sempre proficuo eccesso di evidenza, nella necessita di raggiungere - appunto servendosi dei mezzi di diffusione del SIM - quei simpatizzanti non ancora a loro collegati ma che tra loro vanno collegandosi. Soltanto dai simpatizzanti, un po' dovunque sparsi, la Risoluzione può essere letta con profitto: ma c’è da dubitarne.

La lettera di Moro è tale da suscitare, immediatamente, questa nota, concordata in una riunione ristretta di maggiorenti democristiani, che ufficialmente viene affidata al giornale del partito ma che tutti i giornali l'indomani riportano: « Come possono comprendere i lettori il testo della lettera a firma Aldo Moro indirizzata all'on. Zaccagnini ... rivela ancora una volta le condizioni di assoluta coercizione nelle quali simili documenti vengono scritti e conferma che anche questa lettera non è "moralmente a lui ascrivibile" ».

I lettori, almeno quelli - pochi o molti - che sanno capire quel che leggono, non erano del parere dei maggiorenti democristiani: anche se era un parere condiviso dai grandi giornali e dalla radiotelevisione. Che approvassero o no il comportamento dell’onorevole Moro, i lettori non potevano comprendere perché si dovesse giudicare « fuori di sé », non in condizione di intendere e di volere, un uomo che non voleva morire e che si rivolgeva al proprio partito affinché lo riscattasse con mezzi che, per quanto elettoralisticamente rischiosi, non attingevano all’impossibile. C'erano, sì, quei cinque morti: quei cinque uomini della scorta massacrati al momento del « prelevamento». Ma, a pensarci bene, quei cinque morti facevano ragione perché ce ne fosse un sesto?

Comunque, la lettera di Moro non sembrava delirante. E non era.

«Caro Zaccagnini, « scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzi tutto della DC alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare.

Certo sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzi tutto la DC, la quale deve muoversi qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri. Parlo innanzi tutto del Partito Comunista, il quale pur nell'opportunità di affermare l'esigenza di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costruire. E’ per altro doveroso, nel delineare la disgraziata situazione, che io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alia famiglia mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. « Questo è tutto il passato. II presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze.

« Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. II tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi. Si discute qui non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando l’attenzione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato ma una qualche concessione e non solo equa, ma anche politicamente utile.

« Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la DC, che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul Partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco. Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità e senza avere subito alcuna coercizione nella persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi. Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi ed a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti. Fatto il mio dovere di informare e richiamare mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non avessi una famiglia così bisognosa di me sarebbe un po’ diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la DC, avendo dato sempre con generosità. Che Iddio vi illumini e lo faccia presto, come necessario. I più affettuosi saluti ».

Per quella specie di dottrina di Monroe da lui sempre propugnata - la non ingerenza di altre forze politiche e d’opinione in quel continente che è la Democrazia Cristiana - si rivolge ancora al partito e, per nome, agli altri sette democristiani che con Zaccagnini possono « assumere le responsabilità », decidere. Tra gli otto c’è, alquanto incongruamente, Cossiga. Basterebbe, per il governo, Andreotti: il presidente del Consiglio. E più necessaria, dovendo decidere per le trattative e per lo scambio, sarebbe stata la presenza del ministro della Giustizia. Perché Moro vuole che a quel ristretto consesso partecipi Cossiga? Ma evidentemente perché il ministro degli Interni dica o che le indagini e ricerche sono ad un punto morto, e dunque la trattativa si impone senza riserve, o che la polizia sta per raggiungere dei risultati, e dunque si può ancora resistere a non trattare o trattare in un certo modo.

A quel punto, dopo circa venti giorni di prigionia, Moro non si fa certo molte illusioni a che la polizia possa trovarlo e liberarlo. Spera di più nella trattativa, nello scambio: e offre al partito un argomento che può servire a giustificarlo - ammesso che la Democrazia Cristiana abbia bisogno di giustificazioni - di fronte agli altri partiti e all’opinione pubblica: l’argomento dell'aver pensato sempre così, in coerenza all’essere cristiano. Così pensava Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, già qualche anno prima: che tra il salvare una vita umana e il tener fede ad astratti principi si dovesse forzare il concetto giuridico di stato di necessità fino a farlo diventare principio: il non astratto principio della salvezza dell'individuo contro gli astratti principi. E così non potevano non pensare, nel loro essere o dirsi cristiani, gli uomini della Democrazia Cristiana: dalla base ai vertici.

Ma una insospettata e immane fiamma statolatrica sembra essersi attaccata alla Democrazia Cristiana e possederla. Moro, che continua a pensare come pensava, ne è ormai un corpo estraneo: una specie di doloroso calcolo biliare da estrarre - con l’ardore statolatrico come anestetico - da un organismo che, quasi toccato dal miracolo, ha acquistato il movimento e 1'uso del « senso dello Stato ».

Certo, è scomodo si sappia che Moro ha sempre pensato così; che non sono state le Brigate rosse, con sevizie e droghe, a convertirlo alla liceità dello scambio di prigionieri tra uno Stato di diritto e una banda eversiva. Ma c’è rimedio: e nemmeno occorre tanto affaticarsi per applicarlo. I giornali indipendenti e di partito, i settimanali illustrati, la radio, la televisione: sono quasi tutti lì, in riga a difendere lo Stato, a proclamare la metamorfosi di Moro, la sua morte civile.

Da L’Affaire Moro, di Leonardo Sciascia (Milano, Adelphi Edizioni, 1994), p.149

CRONOLOGIA DELL’« AFFAIRE »

Marzo 1978

16 Aldo Moro, presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, viene « prelevato » - uccisi i cinque uomini che lo scortavano - da una banda che si presume delle Brigate rosse.
Un’ora dopo, le confederazioni sindacali proclamano lo sciopero generale.
Prima di sera, il governo presieduto dall’onorevole Andreotti su cui fino al giorno prima si manifestavano perplessità e riserve da parte delle sinistre e di alcuni gruppi della Democrazia Cristiana, viene approvato, da una maggioranza che comprende anche i comunisti, alla Camera dei deputati e al Senato. In via Licinio Calvo, a un centinaio di metri da via Fani dove il « prelevamento » è avvenuto, la polizia trova una delle automobili di cui si sono serviti i terroristi.

17 La polizia arresta un giovane impiegato come gravemente indiziato di partecipazione o complicità al sequestro dell'onorevole Moro; ma il magistrato incaricato dell'inchiesta lo rilascia due giorni dopo in quanto estraneo al fatto. (E’ da notare come grossolano errore di grammatica poliziesca che una persona, sospettata di un reato quale il sequestro di persona, venga subito arrestata invece che accortamente seguita, spiata).
In via Licinio Calvo la polizia trova un’altra automobile di cui i terroristi si sono serviti: c’era da prima o vi e stata portata dopo?
Trattandosi di una zona che era stata minutamente setacciata e restava vigilatissima, il rinvenimento dice inefficienza ed ha sapore di beffa.

18 Arriva il primo comunicato delle Brigate rosse: assumono la responsabilità del sequestro di Moro e dell’uccisione della scorta; dichiarano di voler processare (Tribunale del Popolo) il presidente della Democrazia Cristiana. Al comunicato è unita una fotografia di Moro prigioniero nel « carcere del popolo ».

19 In via Licinio Calvo, la polizia trova la terza automobile di cui i terroristi si sono serviti per il rapimento. « Sicuramente ieri non c'era » dice la polizia. Ma il fatto che vi sia stata portata dopo, eludendo la vigilanza, i pattugliamenti, e altrettanto grave che il non averla notata per due giorni di seguito. Non è, del resto, il solo infortunio in cui la polizia incorre: dei ricercati di cui diffonde per televisione e sui giornali l'immagine, due sono già da tempo in carcere e uno si trova, non nascosto, a Parigi. Anche Brunilde Pertramer, ricercata come brigatista, risulterà regolarmente registrata negli alberghi in cui ha alloggiato.

20 Al processo contro Curcio e altri, che si svolge tempestosamente all'Assise di Torino, i brigatisti in gabbia gridano: « Moro è nelle nostre mani! ».

21 II Consiglio dei ministri approva una legge che accresce i poteri della polizia e riduce la libertà dei cittadini.
I giornali dibattono sull’opportunità dell’autocensura: e con propensione a praticarla.
Uomini rappresentativi vengono dai giornali invitati a pronunciarsi pro o contro il principio dell’autocensura. Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, interrogato dal « Giornale di Sicilia », risponde: « In linea di princi-pio, informare l’opinione pubblica è un dovere. Ma in particolari momenti, come quello che stiamo vivendo, forse sarebbe meglio non pubblicare i messaggi dei brigatisti, anche per favorire le indagini. Quando le notizie possono nuocere all’azione degli inquirenti e quindi alla cattura degli assassini, si deve tacere anche se può costare. Ripeto però che, in linea di principio, la libertà di stampa deve essere assicurata ».

24 A Torino, attentato delle Brigate rosse contro Giovanni Picco, democristiano, ex sindaco della citta.

25 Comunicato numero due delle Brigate rosse: vi sono elencati i capi d’imputazione a Moro; ma genericamente.

29 Arrigo Levi, direttore del quotidiano torinese « La Stampa », lancia la proposta che Leone si dimetta da presidente della Repubblica e che il Parlamento elegga al suo posto Moro. La proposta suscita diffuse perplessità e diffidenze.
La sera, arrivano una lettera di Moro al ministro degli Interni Francesco Cossiga e il comunicato numero tre delle Brigate rosse. Nel comunicato si afferma che l’interrogatorio « prosegue con la completa collaborazione del prigioniero ».

31 « L’Osservatore romano » offre la disponibilità della Santa Sede a operare per la soluzione del « dolorosissimo caso ».

Aprile

Pare che Nicola Rana, segretario di Moro, abbia ricevuto una lettera del prigioniero.
L’indomani, si dice ne abbia avuta una anche la famiglia.

3 La polizia effettua perquisizioni e arresti nell’ambito dell’ultra sinistra. Ma entro le quarantotto ore, il magistrato rilascia quasi tutti gli arrestati: la polizia aveva operato sulla base di elenchi compilati nel 1968. Molti dei ribelli di allora erano ormai nei partiti del cosidetto arco costituzionale, e specialmente nel Partito Comunista.

4 Arrivano una lettera di Moro a Zaccagnini, il comunicato numero quattro delle Brigate rosse e l’opuscolo, datato febbraio 1978, della Risoluzione della direzione strategica. Nel comunicato si dice che « la manovra messa in atto dalla stampa di regime », di attribuire a dettatura delle Brigate quanto Moro ha scritto a Cossiga, « è stata subdola quanto maldestra » e che lo scritto esprime un punto di vista che le Brigate non condividono.

6 « II Giorno » pubblica una lettera di Eleonora Moro al direttore, scritta nella speranza che i brigatisti la facciano leggere al marito.

7 A Genova, attentato delle Brigate rosse contro Felice Schiavetti, presidente dell'Associazione Industriali, il solito azzoppamento.

10 I giornali diffondono la notizia, del tutto infondata, che le Brigate chiedono, a riscatto di Moro, le dimissioni di Leone e sessanta miliardi di lire.
Nel pomeriggio, le Brigate rosse diffondono il comunicato numero cinque e uno scritto autografo di Moro contro Taviani.

11 A Torino, tre brigatisti sparano contro la guardia carceraria Lorenzo Cotugno. Prima di morire, Cotugno ferisce il brigatista Cristoforo Piancone, che viene dai compagni lasciato sulla soglia di un ospedale. Piancone si dichiara prigioniero politico e non risponde alle domande della polizia e del giudice; ma qualche giorno dopo, sui quotidiani « II Tempo » e « II Giornale », apparirà l’intervista che un giornalista è riuscito ad avere da lui.

12 Si dice che Cossiga, Rana e la famiglia abbiano avuto altre lettere di Moro.

15 Comunicato numero sei delle Brigate rosse: « Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte ».
I giornali pubblicano la notizia di « undici attentati a Venezia in diciassette ore »: il giorno precedente; e, cautamente, che un elenco di duecento possibili brigatisti « sarebbe stato consegnato al ministero degli Interni da un alto esponente del Partito Comunista ».

17 Appelli alle Brigate rosse dell’« Osservatore romano » e di Amnesty International.

18 II « falso » comunicato numero sette delle Brigate rosse.
La polizia scopre in via Gradoli un « covo » delle Brigate. Per caso, si dice dapprima; ma poi si apprende che la segnalazione l’aveva ricevuta da un pezzo: solo che era andata a Gradoli, in provincia di Viterbo, invece che nella via Gradoli, che si trova nella zona romana in cui Moro è stato rapito.

19 « Lotta continua », giornale dell’ultra sinistra, pubblica un appello per la salvezza di Moro firmato da vescovi, parlamentari, intellettuali cattolici e laici.

20 Le Brigate rosse, a Milano, uccidono il maresciallo delle guardie carcerarie Francesco De Cataldo.
Le Brigate diffondono il « vero » comunicato numero sette: Moro è vivo, sono disposti a restituirlo in cambio di « prigionieri comunisti». E’ un ultimatum. Scadenza: le ore quindici del giorno 22. Una fotografia di Moro), con in mano « La Repubblica » del giorno precedente, viene mandata a questo giornale.

21 Altra lettera di Moro a Zaccagnini: ma non tutti i giornali la pubblicano.

22 All’Universita di Padova, attentato contro il professor Ezio Riondato: quattro colpi alle gambe, da parte del Nucleo Combattenti per il Comunismo.
Paolo VI scrive agli « uomini delle Brigate rosse » .

24 Comunicato numero otto delle Brigate rosse: ci sono i tredici nomi dei « prigionieri comunisti » che vogliono liberi in cambio di Moro.
II governo di Panama si dice disposto a ricevere i terroristi, nel caso il governo italiano si decidesse ad accettare lo scambio.
Una nuova lettera di Moro a Zaccagnini perviene al giornale « Vita ».

25 Kurt Waldheim, segretario generale dell’ONU, rivolge dalla televisione italiana, e parlando in italiano, un appello alle Brigate rosse. Suscita malumore negli ambienti politici italiani: ha attribuito ai terroristi una « causa », e quindi un ideale. Ma pare che Waldheim volesse dire « propositi »: un piccolo errore di traduzione.
Dalla sede della Democrazia Cristiana, viene distribuita ai giornalisti la dichiarazione degli « amici di Moro »: « Non è l’uomo che conosciamo » .

26 Dieci colpi di pistola contro il democristiano Girolamo Mechelli, ex presidente della Regione Lazio. Alle gambe.
« II Giorno » pubblica una lettera a Moro dei figli.

27 A Torino, colpi alle gambe a Sergio Palmieri, capufficio di « analisi del lavoro » a Mirafiori: e relativo comunicato delle Brigate. Craxi propone che lo Stato mostri di cedere al ricatto delle Brigate rosse con atti di clemenza verso i prigionieri politici.

28 Andreotti in televisione: « Quale sarebbe la reazione dei carabinieri, dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle loro spalle e violando la legge, trattasse con chi ha fatto scempio della legge stessa? E cosa direbbero le vedove, gli orfani, le madri di coloro che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere? ». Evidentemente, nulla c’è da fare per Moro: come Cortes, toccando di madri, vedove e orfani, Andreotti ha bruciato i vascelli di una trattativa con le Brigate rosse che Craxi continua a dire possibile.

29 Si parla di altre lettere di Moro alla famiglia; e di una arrivata per posta in risposta a quella dei familiari pubblicata dal « Giorno ».
La sera ne arriva una al giornale « II Messaggero», indirizzata alia Democrazia Cristiana. Sarà pubblicata l’indomani. Di quelle che conosciamo, è l’ultima diretta all’intero partito.

30 Si ha notizia che Moro ha inviato lettere a Leone, Andreotti, Ingrao, Fanfani, Misasi, Piccoli e Craxi. Ma soltanto quelle a Craxi e a Leone saranno pubblicate, rispettivamente il 3 e il 4 maggio.

Maggio

Appello della famiglia Moro ai dirigenti della Democrazia Cristiana: che il partito « assuma con coraggio le proprie responsabilità ».

3 Andreotti ribadisce il no del governo a una trattativa con le Brigate rosse.

4 Due azzoppamenti: a Milano, Umberto Degli Innocenti, della Sit-Siemens; a Genova, Alfredo Lamberti, dello stabilimento Italsider di Cornigliano.

5 Comunicato numero nove delle Brigate rosse: « Concludiamo ... la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato ». Si scatena l’interpretazione del gerundio.

6 A Novara, azzoppamento del medico delle carceri Giorgio Rossanigo: ma dai Proletari Armati per il Comunismo.

8 Altro medico - fiscale dell’INAM - azzoppato a Milano, Diego Fava: anche lui dai Proletari Armati per il Comunismo.

9 Nel bagagliaio di una Renault 4 - rossa secondo il brigatista che ne ha dato comunicazione, amaranto secondo i giornali - viene trovato il corpo di Aldo Moro.
La famiglia diffonde questo comunicato: « La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia ».

10 A Torrita Tiberina, i funerali in forma privata. Moro viene seppellito in quel cimitero.

13 Rito funebre nella basilica di San Giovanni in Laterano. Presiede Paolo VI, celebra il cardinal Poletti (quello in cui Moro sperava, ma non molto, per una rettifica della « enormità »). Tutti gli uomini del potere sono presenti. Mancano la moglie e i figli di Aldo Moro. II papa dice: « Tu, o Signore, non hai esaudito la nostra supplica ».

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Ultimo aggiornamento Venerdì 16 Marzo 2018 21:04
 
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