=ROSARIO COLUCCIA, IL PURISTA MODERATO= Stampa
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Scritto da Redazione   
Sabato 12 Maggio 2012 19:45

Rosario_Coluccia

 

 

Per una bussola di comportamento

fra lingua comune, anglicismi e linguaggi specialistici.

"Oggi gli italiani posseggono la lingua italiana e la Costituzione"

 

 

Conversazione di Tony Tundo

con Rosario Coluccia,

presidente nazionale dell'Associazione per la Storia della lingua italiana (ASLI, Firenze)  

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Qualche decennio fa, quando ero immersa nelle sudate carte del testo di Storia della lingua, avrei dato del pazzo a chi mi avesse detto che ne avrei discusso un giorno con un de Saussure del terzo millennio,  invece mi trovo nell’Ateneo leccese e sto per realizzare la mia “intervista impossibile”. Non schermirti, questo penso. Ti presento  a quanti non ti conoscono. Il prof. Rosario Coluccia è ordinario di Linguistica italiana  presso l’Università del Salento e Preside della facoltà di Lettere e Filosofia. E’ Presidente Nazionale della Associazione per la Storia della Lingua Italiana (ASLI, Firenze) e Segretario della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (SILFI, Basilea). Caro Pino (ti chiamerò come ho sempre fatto) mi dai un’opportunità  davvero ghiotta  perché la questione  della lingua, dell’evoluzione/involuzione della lingua, è stato il mio rovello per tutto il tempo della mia esperienza professionale, perché ne parlo addirittura con un Accademico della Crusca, poi perché questo Accademico è un mio amico di liceo.

Intanto tu hai ricevuto questa prestigiosa nomina nel gennaio scorso, ma non ne hanno parlato i quotidiani di Galatina. Come mai? Io ho le mie risposte, vorrei sentire cosa ne pensi tu.

Ne hanno scritto la Gazzetta del Mezzogiorno e il Nuovo Quotidiano di Puglia. Da Galatina ho ricevuto una lettera dal Commissario prefettizio. Perché ci sono quotidiani a Galatina?

Sì, ma in prima pagina troneggiano le notizie dei salentini a Sanremo, oppure al Grande Fratello, naturalmente i brutti pasticciacci della politica locale e nazionale, lo sport. La cultura non fa notizia. E’ così?

Credo che si tratti di scale di valori, di presunta gradevolezza  della notizia da parte del pubblico, è del tutto normale che i giornali pubblichino le notizie che la maggior parte dei lettori vuole leggere.

Noi, invece, vogliamo parlar non di te ma con te del cammino della lingua. Alcuni sostengono molto genericamente che, dopo un secolare travaglio accademico, sia stata la televisione - chi non ricorda il maestro Manzi di “Non è mi troppo tardi”? – a chiudere la questione diffondendo la lingua italiana sull’intero territorio nazionale. Non credi che oggi sia la stessa televisione responsabile del degrado del linguaggio?

In parte sì, in parte no. Fu certamente decisivo per l’alfabetizzazione quell’alto, gentile, allampanato maestro Manzi che, lavagna e gessetto, ha insegnato a leggere e a scrivere a 2.000.000 di italiani. Ma sulla stessa scia un altro buon contributo alla diffusione della nostra lingua lo ha dato Mike Bongiorno, un personaggio anche vilipeso perché non aveva un grande panorama culturale e storico, che ha però allargato la conoscenza di un italiano non aulico ma neppure sgrammaticato, un italiano medio.

Vilipeso ma interessante sì da ispirare Umberto Eco nel suo pungente e famosissimo saggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Infatti. Poi le cose cambiano e nella trasmissione “Parola mia” condotta da Luciano Rispoli,  attraverso test, quiz, nella forma del gioco e della gara, Gianluigi Beccaria aiuta a riflettere sull’uso della lingua un pubblico che, a differenza di quello di Manzi, non è di analfabeti ma di persone che hanno già gli strumenti. Oggi in TV, la domenica mattina,  Francesco Sabatini discute e chiarisce dubbi sulla grammatica e sul lessico. Dunque se parliamo di alfabetizzazione occorre ricordare che oggi gli italiani posseggono la lingua italiana e con l’Unità d’Italia 94 su 100 ne erano esclusi, i nostri bisnonni possedevano soltanto il dialetto.

Ricordo l’ottima trasmissione di Rispoli che però era proposta intorno alle 13, una fascia oraria che escludeva molto del potenziale pubblico, seguo spesso Sabatini e sento nelle telefonate dubbi linguistici  che mostrano ancora oggi una grande incertezza sui costrutti del lessico che diamo per acquisiti.

Per Rispoli è vero, dipenderà dalle esigenze di palinsesto, anche qui, stabilito evidentemente secondo presunti criteri di gradevolezza. Quanto all’incertezza, è spiegata con l’allargamento della conoscenza; è una questione di numeri ma i numeri sono importanti, poi si fa complesso il discorso sulla qualità dell’italiano posseduto. Non possiamo ignorare che conta di più un messaggio di un calciatore o di un cantante che non quello di un insegnante. Qui il discorso si allarga, perché è compito delle Istituzioni, della politica occuparsi di aumentare il livello dell’istruzione scolastica e universitaria.

Aumentare o migliorare?

Migliorare certo, addestrare all’uso scritto della lingua, allenare soprattutto alla variabilità comunicativa. Per fortuna è superata la rigidità, in molti ambiti pomposa nel recente passato, delle strutture linguistiche. La questione del che polivalente per esempio, pensiamo a Vasco Rossi: “voglio una vita che non dormi mai”, quale impatto comunicativo se invece fosse “una vita nella quale…”? Tutti diciamo abitualmente “il giorno che ti ho incontrata” abbandonando schemi sintattici rigidi tanto che un’abitudine si accredita legittimamente come forma corretta del discorso: che polivalente con accezione consecutiva, se vogliamo sofisticare. E allo stesso tempo, i tecnicismi sono necessari: un medico parlerà col collega con un linguaggio rigorosamente scientifico, col paziente userà un linguaggio comune. Non si può essere puristi in assoluto, io mi ascriverei al partito dei puristi moderati, se ci fosse. Tutti fruiscono, per fortuna, della lingua, pochi possono dire di padroneggiarla. Ma diciamo la verità, quanti sono in grado di apprezzare Mozart o di  “leggere” compiutamente un dipinto di Caravaggio? Eppure frotte di visitatori passano davanti a quadri d’autore senza avere conoscenza alcuna di tecnica pittorica o di correnti artistiche.  Il nodo è...

Lingua tecnica, ma anche tecnocratica? Lo paventava Pasolini, lui deplorava che il processo di unificazione linguistica partisse dalle aziende, dalla tecnocrazia del Nord e non dal basso (profetico?) e deplorava la perdita della vitalità e della concretezza che soltanto i dialetti sanno esprimere per la loro natura mai centralistica, mai del “potere”.

L’omologazione consumistica avrebbe indotto, a sua volta, un'omologazione a un unico modello di comportamento e di aspettative. Sei d’accordo?

Pasolini profeta, no. Aveva però visto con largo anticipo - questo sì -  il fenomeno dell’omologazione. Lui riteneva che il mezzo che ci avrebbe sottratto all’omologazione tecnologica dettata dalla prevaricazione del triangolo industriale doveva essere il dialetto. Ma sbagliava nella diagnosi perché la lingua non è contaminata dalla tecnologia, basti solo un dato:  il triangolo industriale non c’è più. La nostra non è una lingua tecnologica, è una lingua impoverita, sconnessa. Deve crescere la coscienza che la lingua è un organismo variabile ed è necessario che sia sottoposta a un processo di cambiamento, questo richiede modalità diverse. Il linguaggio tecnico è necessario in parte, contemporaneamente occorre sapere che c’è un’osmosi continua fra lingua comune e linguaggi specialistici. Bisogna trovare una bussola di comportamento.

Ma a me pare che, se da una parte si è raggiunta la semplificazione nell’ambito della comunicazione, nel parlare e nello scrivere comuni, nel linguaggio amministrativo c’è un abuso di tecnicismi che lo rendono sempre più farraginoso, penso ai documenti delle Banche, delle Compagnie assicurative. Sembra quasi fatto ad arte, volutamente oscuro, da  “Machiavellismo degli stenterelli”. E’ così?

Forse c’è una volontà, ma - peggio - c’è un’abitudine di ripetere forme ereditate, stereotipate. Un costume consolidato che non va affatto bene. Anche qui, è un problema di educazione. Occorre lavorare per sradicarlo.  Io cerco di sollecitare alla sintesi e alla concretezza chi lavora con me. E’ fondamentale.

Gli stereotipi. Le mode. Ad esempio, è la volgarità imperante a influire sul linguaggio o, viceversa, un linguaggio - per così dire - disinvolto e aggressivo indirizza verso atteggiamenti e comportamenti aggressivi?

Non so dire e non voglio fare facile moralismo ma effettivamente c’è un uso eccessivo delle parolacce, ne hanno contate trenta solo in un’ora di trasmissione televisiva, ma va detto che finiscono con l’usurarsi. Non ti pare?

E  la volgarità sistematica nei dibattiti politici?medioevo_rivista

Questo è un altro discorso ed è gravissimo. Si assiste a spettacoli francamente squallidi, c’è una questione profonda: l’assunto non è argomentare l’opinione ma far prevalere sé stessi insultando. Lo strumento di persuasione e di comunicazione politica è l’insulto,  maggiore è la mia capacità di offendere e maggiore sarà il consenso; lo vediamo e lo leggiamo in continuazione. In Tv nei faccia a faccia dei politici l’insulto è diventato una costante e alcuni personaggi televisivi e politici ne hanno fatto un’arte retorica e persuasoria, una  “forma” di  dialogo che annulla l’altro.

…e si costruiscono così i miti di oggi. Volgarità dilagante ma anche abuso di anglicismi.  Ci vogliono informati - questo dicono - e ci parlano di spending review o ci informano che a breve in Puglia sarà completato lo switch off. Fino al paradosso che l’incomprensibile diventa un luogo comune. Questo magmatico polverone di verbosità retorica e fumosa, tanta voluta oscurità nel linguaggio di politici e giornalisti,  mi pare richiami certi metodi di propaganda di regime. Esagero?

Vorrei poterti dire che sì, esageri, ma è un problema articolato e complesso quello che poni. Quanto agli anglicismi e ai forestierismi, sono tanti. Cosa dobbiamo fare? Eliminarli? Rimanere ancorati alla purezza della lingua? No, però altri Paesi,  basta superare le frontiere, la Francia, la Spagna hanno scelto altre modalità. In Francia il computer lo chiamano ordinateur, in Spagna ordenador o computadore. Noi, neanche a pensarne.  Si tratta di convertire il tecnicismo alla struttura della propria lingua. Tu sai che in Italia abbiamo un ministero del Welfare. Il problema è di carattere complessivo, dipende dalla considerazione che gli italiani hanno della propria storia, di sé stessi e dalla capacità di affrancarsi nei confronti della predominanza dell’angloamericano. Non sono assolutamente contro gli anglicismi, purché non si rinunci all’uso consapevole della nostra lingua. Ancora una volta il tema da specialistico si fa sociale e politico. Ancora una volta si tratta di trovare una bussola.

Credi perciò anche tu che l’uso corretto della propria lingua, non barocco e forbito certo, ma chiaro e rigoroso sia un atto politico?

Sì, è atto sociale e perciò politico. D’altra parte il nostro discorso è partito dalla lingua per poi allargarsi e non poteva che essere così.

A proposito di inglese e di attacchi all’identità linguistica italiana, ho letto che sembra avviato un processo di anglificazione dell’università italiana; al Politecnico di Milano, dal 2014, l’intera offerta formativa magistrale, vale a dire biennio finale e dottorati, saranno erogati in lingua inglese. Qual è la posizione dell’Accademia della Crusca, la tua personale?

Te ne volevo parlare: questo è un fatto importante, un allarme. Lo scorso 27 aprile c’è stata una tavola rotonda  all’Accademia per discuterne. E’ stato dimostrato che gli stessi ragazzi non sono in condizioni di comprendere certi concetti perché non possono - cosa del tutto comprensibile - padroneggiare la lingua inglese. Ebbene, Azzone, preside del Politecnico, ha dichiarato esplicitamente: Io ho l’obiettivo di  formare i  miei ragazzi per il mercato europeo. Tutto qui”. E’ un problema molto serio e grave perché se passasse questo progetto da Milano si allargherebbe alle altre sedi universitarie. Tengo a dire, però, che non tutti la pensano allo stesso modo: la professoressa Villa, di un vicino ambito scientifico, ha un‘idea del tutto diversa, per esempio, ed è una voce autorevole. Il dibattito è, pertanto, aperto. Si tratta sempre di equilibrio, vanno trovate forme utili a incoraggiare al plurilinguismo. C’è un Commissario europeo al plurilinguismo, vuol dire che il problema è circolare ed è sentito, bisogna vedere poi nei fatti.

E’ una questione interessante. Son contenta che tu voglia condividere con noi di sudcritica questo tuo e vostro allarme.  La Fondazione Popoli e Costituzioni ha denunciato la marginalizzazione della lingua italiana in Europa proposta dal presidente della Commissione europea Barroso, che eliminava dalle lingue ufficiali l’italiano a vantaggio, naturalmente, dell’inglese e del tedesco.

La Fondazione fa un ottimo lavoro, e ho molto apprezzato gli articoli della vostra rivista che mi hai inviato.

Come sai, la sua finalità è la difesa e l’attuazione delle regole e dei principi della Carta Costituzionale del 1948.

Impegno che oggi sembra sempre più difficile e isolato. Tutti riconosciamo (e riconoscono non solo in Italia) la bellezza sostanziale della nostra Costituzione, pochi ne mettono in rilievo la bellezza anche estetica, che poi è chiarezza e trasparenza; la nostra Costituzione è scritta benissimo, d’altra parte la limatura fu affidata a uno dei padri costituenti, Concetto Marchesi, latinista e linguista. 

Sei dunque d’accordo che la cura del linguaggio  ha  un valore anche sostanziale. Anche per questa sua specificità, la chiarezza del dettato costituzionale, è più amaro constatarne lo svuotamento, il travisamento. 

La nostra Costituzione reale non è affatto applicata e non solo nei temi di cui abbiamo trattato. Un problema doloroso e inquietante. Riguardo all’articolo 34 e al mondo della scuola  credo che gli insegnanti facciano proprio tanto, se si pensa anche al prestigio che è veramente basso rispetto alle loro responsabilità e se si pensa a quanta gente opera nelle scuole spendendosi con passione. Vale anche per l’Università. E’ un momento fortemente critico, personalmente però credo nelle persone e ho una visione articolata e, complessivamente, positiva. Non voglio fare la retorica dei giovani, ma vedo ragazzi che pur ben consapevoli di avviarsi per una strada impervia, faticano con energia e tenacia. Saranno coronati da successo? Questo non lo so.

Un membro dell’Accademia della Crusca che rispetta il lavoro dei bamboccioni sfigati che, già in fasce, aspirano alla noia del posto fisso… Vorrà dire qualcosa? Vedremo di far arrivare questa conversazione ai professori  onniscienti del  Governo  e, male che vada (!),  gridiamolo forte e chiaro ai nostri lettori.

Penso, comunque, che il tuo è un osservatorio privilegiato, un ragazzo che decide di studiare Lettere, oggi,  segue una passione. Generalizzo naturalmente, ma non credo che possa dirsi la stessa cosa per chi sceglie economia aziendale o giurisprudenza.

Chi sceglie le altre facoltà, tu dici,  ha come obiettivo la carriera. Sì, è possibile.

Il fascino degli studi  umanistici, “le belle lettere”. Mi auguro che un po’, almeno un po’, ancora valga.

Ultimo aggiornamento Domenica 13 Maggio 2012 08:05
 
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