=DAL BIPOLARISMO AL PARTITO UNICO= Stampa
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Scritto da Redazione   
Domenica 01 Gennaio 2012 13:39

legge_acerbo

 

Lo "scandalo italiano" secondo Giovanni Sartori

Com'è difficile il bipolarismo perfetto

 

 

di Nicola Magrone
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Giovanni Sartori è un’autorità accademica che sconsiglia chiunque dal metterlesi contro; nella migliore delle ipotesi, chi ci prova si becca un’ammonizione.

Il 27 dicembre 2011, sul Corriere della Sera – Bipolarismo e preferenze. Una politica a corto di idee (e dove, se no?), egli ha ripreso il suo ragionamento sull’assetto costituzionale italiano e più in generale sull’ordinamento che la nostra Repubblica si tiene, tutto sommato, da oltre sessant’anni.

Lo ha fatto, questa volta, con un gesto e una premessa di furba modestia:

Forse esagero, ma è da cinquant’anni [e perché mai “da cinquant’anni”? nde] che dalla politica italiana non nasce nessuna idea

per finire col ritrovarsi in un’oscura palude e comunque lontano in misura impressionante dalla nostra Costituzione.

Sartori racconta:

Siamo partiti con il Bipartitismo imperfetto di Giorgio Galli, dove “imperfetto” stava per dire che non c’era alternanza al potere. E’ sì un difetto. Ma sin da allora facevo notare che i paesi senza alternanza di governo erano parecchi, specialmente il Giappone, che pure è stato per lungo tempo un Paese di prima fila”.

Annoto e domando: il Bipartitismo, secondo Sartori, ha avuto in Italia, sì, un “difetto” ma non si è poi trattato  di un guaio grave: vedi il Giappone che è stato in prima fila con governi, appunto, senza alternanza. Dunque, “senza alternanza” potevamo stare e restare noi pure senza troppi strilli. Capisco bene? Spero di no.

Sartori continua il suo approssimativo “racconto”:

Poi si è affermata l’idea che se un Paese non aveva una struttura bipolare non poteva funzionare. Per anni ho cercato di spiegare che una struttura bipolare (tipo destra-sinistra) veniva di solito da sé, che era fisiologica. Chi si prova, ogni tanto, a dichiararsi “terzo polo” è un politico spiazzato dagli eventi. D’altronde, i sistemi bipolari hanno spesso bisogno di un piccolo partito intermedio di sostengo. Come in Germania”.

Se capisco bene, qui si vuol dire che il bipartitismo, per quanto “imperfetto” (perché senza alternanza) e per quanto bisognoso, spesso, di un partitino di scorta, non meriterebbe di essere messo in discussione; esso starebbe nella natura delle cose, prima  ancora che nella decisione e nei disegni degli uomini. Capisco bene? Spero di no.

E allora?

Qual è, allora, lo scandalo italiano? E’ che non abbiamo il voto di preferenza. Lo avevamo, ma a furor di popolo venne cancellato da due referendum. Non era un secolo fa, eppure ce ne siamo dimenticati. E ci siamo anche dimenticati perché non funzionò allora, e perché funzionerebbe ancora peggio se ripristinato. In passato la prassi costante, tra gli scrutatori dei seggi, era di controllare attentamente i voti di lista ma di consentire a se stessi di aggiungere crocette di preferenza ai raccomandati del proprio partito. Oggi siamo più smaliziati. Così è ancora più sicuro che il votante non riuscirà quasi mai a eleggere chi voleva. Eppure ci crede”.

Insomma: nemmeno il voto di preferenza, dentro agli assetti ordinamentali di oggi, sempre più semplificati se non autoritari o addirittura totalitari perché fondati sulla vocazione di governo (dicono: maggioritaria) dei partiti, dal più grosso al più piccolo, nemmeno il gesto di esprimere una preferenza scegliendo approssimativamente in una lista preconfezionata aiuterebbe a liberarci da quello che Sartori, buttandola lì come un’ovvietà che non si merita spiegazioni, definisce “scandalo italiano”. Ci converrebbe – così argomentando - tenerci ciò che abbiamo, una sorta di democrazia rituale ed oligarchica. Capisco bene? Spero di no.

Francamente, alla luce di queste argomentazioni del docente Sartori (del quale resto creditore discente di una distesa illustrazione del cosiddetto “scandalo italiano” e, a maggior ragione, di una - da me temuta - ulteriore semplificazione dei meccanismi e delle regole della democrazia ridotti e mortificati nella presa d’atto del duello recitato da due partiti, il resto della società in platea o ai seggi per il rito formale e finale), alla luce delle premesse fin qui fedelmente evocate, mi attendo il peggio nelle conclusioni di Sartori. Che sono queste, se ancora una volta capisco bene, ancora una volta sperando di no:

“In questo cinquantennio la vera novità è invece passata inosservata. Nel 1918 Max Weber scriveva un saggio, La politica come professione, che è illuminante già nel titolo, e che stabilisce una volta per tutte qual è il problema. Questo: che si è man mano consolidata e moltiplicata una popolazione che vive di politica e che non sa fare altro. Se perde il posto o le entrature nella «città del potere», allora resta disoccupato: o politica o fame. È evidente che la politica come professione è una inevitabile conseguenza della entrata in politica delle classi povere. Finché l'accesso al potere era ristretto ai benestanti, il cosiddetto «politico gentiluomo», non si faceva pagare. Non ne aveva bisogno. Ma i nullatenenti, invece, sì.

Va da sé che il politico di professione esiste oramai un po' dappertutto. Ma da noi con una virulenza inedita che ci assegna tra i Paesi più corrotti al mondo (al 69° posto)”.

Se finora mi è parso di capire, magari sopravvalutando le parole per niente rassicuranti di Sartori sul bipolarismo imperfetto e  auspicabilmente sbagliando grossolanamente, qui devo dichiarare che non capisco più. I danni provocati dalla “entrata in politica delle classi povere”, primo fra tutti la “moltiplicazione di una popolazione che vive di politica e che non sa fare altro, o politica o fame”, li ho letti come pronunciati e denunciati decenni fa, esattamente nel ventennio del partito unico e dello Stato Partito. La nostalgica evocazione, poi, del “politico gentiluomo” che non ha bisogno di di soldi avendoli più che a sufficienza di suo a me pare il segno di una senile stanchezza culturale prima che politica.

Questo a me pare. E comunque, cerco di capire quale sia l’approdo al quale Sartori guarda, le sue argomentazioni sembrandomi ondivaghe e sostanzialmente orientate a favore di una democrazia controllata e agevolmente governata.

Conlcude, infatti, Sartori:

È che da noi mancano le controforze politiche, manca un vero pluralismo politico. Il fascismo ha favorito lo sviluppo di quelle che oggi ci siamo abituati a chiamare lobbies , ovvero corporazioni di interessi economici. Dopodiché il dopoguerra ci ha restituito un sindacalismo largamente massimalista. Mentre nel 1959 i sindacati tedeschi ripudiavano a Bad Godesberg il sindacalismo rivoluzionario e da allora collaborano con le aziende, noi continuiamo il rito di inutili e dannosi scioperi.

Il punto è, allora, che lo strapotere della nostra casta di politici di professione non si imbatte in vere controforze che lo combattono. Noi siamo precipitati nel momento in cui la stupidità della sinistra, allora di D'Alema e di Violante, ha consegnato il Paese a Berlusconi regalandogli tutta o quasi tutta la televisione”.

Non so, a mia volta, “se esagero” (come dice di sé Sartori) ma, anche alla fine della lettura del testo sul Corriere della Sera (che qui ho deliberatamente riproposto per intero), mi sembra di capire che non è la democrazia di Sartori l’“idea nuova” che ci si sarebbe aspettati. Essa propone rimedi editi e falliti, dolorosamente falliti. Alla mia memoria essa richiama le ragioni fondanti la famosa e insieme sistematicamente dimenticata “legge Acerbo” venuta alla luce il 18 novembre del 1923, premessa necessaria del drammatico risultato elettorale del 6 aprile del 1924.

Spiegarono i proponenti la riforma:

" Il disegno di legge ha una portata limitata che è questa: eliminare il fondamentale difetto della legge in vigore, che impedisce la formazione di una maggioranza omogenea o, come si esprime con l'usata energia il Presidente del Consiglio, assicurare il popolo il quale anela di veder debellata al sommo della cosa pubblica ogni incertezza e tergiversazione, una vibrazione di forze convergenti, un Governo conscio dei suoi doveri, e capace di adempierli .

[...] il vizio fondamentale della proporzionale è quello di frazionare l'Assemblea deliberante in tanti gruppi, da rendere pressocché impossibile il normale Governo di gabinetto, che è la base del nostro sistema rappresentativo. [...] La minor durata delle legislature, l'infecondità del lavoro legislativo sia sotto il rapporto qualititativo che quantitativo, paralisi del potere esecutivo nei più gravi problemi politici, che non possono affrontarsi da Gabinetti di coalizione, l'accorciata vita dei ministeri sono fenomeni accentuatisi in regime proporzionale. Innegabile è anche che da ciò è derivato un maggior discredito delle istituzioni parlamentari nella coscienza pubblica.

[...] Sembra ingenuità parlare di minoranza che governa, quando, da che esistono i governi, è il maggior numero tra presenti e vigilanti che forma le leggi ed amministra.".

Dice Sartori che il problema, oggi, è che “mancano controforze politiche, manca un vero pluralismo politico”. In effetti, mancano. Non so se sono D’Alema e Violante i campioni di una “controforza politica” mancata; indizi convergenti sostengono l’opinione di Sartori; e tuttavia, lo scritto di quest’ultimo che qui si è inteso leggere e annotare rapidamente e passo passo, è la prova concreta della ormai diffusa e scrupolosa reticenza nel pronunciare la parola bandita dal vocabolario della politica: il sistema democratico fondato sulla regola più elementare: il proporzionale.

Non c’è, dunque, da stupirsi se da anni ormai “forze” e “controforze” politiche (quelle che Sartori vorrebbe) agiscono indisturbate nel Palazzo, per quanto snervate e mute nella società. Una ad immagine e somiglianza dell’altra. Il bipolarismo perfetto ormai molto vicino al partito unico.

A quando, su questo, una esplicita e leale discussione tra tutti, “politici gentiluomini” compresi? 

 
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