=L'OLIO DI OLIVA PUGLIESE NON PARLA TEDESCO E IL NOSTRO AGRICOLTORE STUDIA DA SOLO= Stampa
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Scritto da Redazione   
Giovedì 03 Maggio 2012 19:40

ulivo1Olio di terra di Bari. La scontrosa solitudine di un prodotto di nicchia

 

di Giovanna Crispo

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foto Covella/Sudcritica

 

 

La mancata valorizzazione dell’olio d’oliva extravergine pugliese è problema di grande attualità, visto che i prezzi all’ingrosso dell’ultima campagna di commercializzazione, sulla piazza di Bari, sono quasi dimezzati rispetto alla precedente.

Qualcuno potrà ipotizzare che, semplicemente, la produzione sia raddoppiata a fronte di un consumo costante.

Per verificare se questa è una spiegazione plausibile è necessario rapportarci alla produzione su scala mondiale, ricorrendo alle stime del Consiglio Oleicolo Internazionale.

Scopriamo, così, che la produzione mondiale è effettivamente aumentata, rispetto all’annata precedente, ma solo del 3%.

Più in dettaglio, i ¾ della produzione sono stati ottenuti nell’Unione Europea e la Spagna da sola copre il 62% di tale quota; inoltre, dovrebbero ottenere incrementi di produzione anche altri Paesi del Mediterraneo che in ordine di importanza nel settore sono la Tunisia, la Turchia, la Siria, il Marocco e l’Algeria.

Non va sottovalutato, da parte degli addetti ai lavori, la progressiva crescita australiana.

L’Italia, ove le due maggiori regioni produttrici sono la Puglia e la Calabria, per cause climatiche ed alternanza produttiva fisiologica, mostrerebbe una flessione del 6% rispetto alla campagna precedente (solo il nord della Puglia avrebbe un aumento).

Nel complesso, possiamo affermare che il volume produttivo nazionale e mondiale non ha giocato un ruolo determinante nella formazione del prezzo e che le cause del ribasso sono da ricercare altrove.

Ritengo, allora, che la sostanziale dicotomia del mercato nazionale dell’olio extravergine sia la prima componente da esaminare; infatti, il settore si caratterizza per l’elevata quantità di prodotto che viene commerciata in “filiera cortissima” (dal produttore al consumatore) e che viene autoconsumata dai produttori agricoli e loro familiari che il rapporto “Il mercato dell’olio di oliva sfuso in Italia”, edito dall’Ismea, stima in circa 1/3 del totale, mediamente pari a 750.000 ton.

In questo segmento di mercato, che sfugge alle rilevazioni statistiche delle Camere di Commercio, la domanda è sostenuta dalla maggior parte degli intenditori e buongustai e, probabilmente, incontra l’offerta a livelli di prezzo più remunerativi per i produttori.

Nell’altro segmento, che interessa la maggior parte della produzione, invece, si colloca la domanda di quei consumatori moderni che antepongono la praticità d’uso della confezione “usa e butta”, l’economia di spazio della confezione di ridotte dimensioni, l’economia di tempo di una spesa alimentare fatta interamente presso la Grande Distribuzione Organizzata, il grande risparmio promesso dalle “offerte speciali” di quest’ultime strutture, a qualsiasi altra considerazione di merito.

Per soddisfare questo tipo di domanda sono sorte imprese che si dedicano esclusivamente alla miscelazione e confezionamento di oli d’oliva di tutte le provenienze e che spesso immettono in commercio, con diversi marchi famosi solo per il grande volume di pubblicità che li accompagna, sempre lo stesso blend  con modeste varianti.

ulivo2Premesso che, comunque, questa tecnica di produzione è perfettamente legittima e che è regola diffusa in tutta l’industria alimentare e del tabacco, allo scopo di uniformare nel tempo e nello spazio la qualità delle merci, occorre evidenziare che, anzitutto, essa annulla la tipicità delle materie prime migliori e che, spinta all’esasperazione, diventa il modo di camuffare l’impiego di materie prime gravemente difettose ma molto economiche.

Al riguardo, ritengo necessario che tutti i consumatori sappiano e tengano sempre presente che quando un parametro della qualità può essere misurato analiticamente, per cui può essere sottoposto a limiti di legge, in quanto dato oggettivo, può anche essere modificato quasi a piacere, ricorrendo proprio alla miscelazione di materie prime molto diverse per quella caratteristica.

Si tratta di una semplice operazione matematica, nota come “quadrato di Pearson”, “regola del miscuglio” o “doppia differenza in croce”, che ormai è divenuta l’unico “Credo” di numerose industrie alimentari.

Tornando al caso specifico, si rende necessaria anche una precisazione storica: la produzione italiana di olio extravergine di oliva non è mai stata sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale che, per circa il 10% del totale, è sempre stato coperto dalle importazioni e conseguenti miscelazioni. Essendo ormai finiti i tempi in cui i dazi doganali ostacolavano, tra l’altro, anche le importazioni superflue, la nostra produzione di elevata qualità ma molto costosa si è trovata a dover competere, in casa propria, con merci più economiche che l’hanno progressivamente sostituita nel blend commerciale.

Risulta facile immaginare che, attualmente, i migliori oli extravergini italiani servano solo nella misura necessaria a correggere i difetti dei peggiori oli importati, secondo i risultati dell’operazione matematica succitata.

Peraltro, è degno di nota il fatto che quasi tutti i marchi più conosciuti del settore siano stati acquisiti da imprese spagnole, a dimostrazione dell’estrema fragilità dell’intera industria alimentare italiana, per nulla preparata alle sfide della globalizzazione.

Solo il progressivo aumento del consumo mondiale, registrato nell’ultimo decennio, ha mitigato, in parte, gli effetti della marginalizzazione della nostra produzione ma, ovviamente, non ha potuto stabilizzare i prezzi che dipendono, in grande misura, dalla quantità e qualità degli oli di oliva più economici che sono i primi ad essere commerciati nonché dalla quantità di prodotto nazionale che si riesce ad esportare.

In ogni caso, non si può sottacere che, quando fra produttori e consumatori si interpone una filiera articolata, questa tende a scaricare sul contraente più debole, cioè con maggiore rigidità di comportamento davanti alle variazioni dei prezzi (per cui acquista quando i prezzi aumentano e/o vende mentre i prezzi scendono, senza modificare le quantità scambiate), tutti gli effetti negativi che derivano dalle vicende di mercato, lasciando inalterati od incrementando i margini di guadagno degli intermediari.

Questa considerazione, quanto mai attuale, stante il generalizzato stato di crisi dell’economia mondiale ed, in particolare, dei Paesi dell’area mediterranea, può spiegare il crollo dei prezzi effettivamente pagati agli agricoltori e la sostanziale indifferenza degli operatori a valle della produzione primaria.

Facendo riferimento alle rilevazioni Ismea, relative al mese di marzo 2012, possiamo osservare che l’olio extravergine spagnolo più costoso (Malaga), quota, all’origine, 1,86 €/Kg; l’olio greco più costoso (Sparta), quota, all’origine, 2,09 €/Kg; mentre la piazza di Bari quota un triste 2,35 €/Kg.

Certo che è difficile non pensare che le differenze siano esattamente pari al costo del trasporto verso l’Italia e che le quotazioni della più importante piazza italiana abbiano toccato veramente il fondo, equivalendo a quelle delle migliori provenienze straniere.

Altrettanto verosimile appare un ulteriore aumento delle importazioni che, invece, dipendono dalle quotazioni sulle piazze più economiche (Sfax 1,71 €/Kg, Jaen 1,77 €/Kg, Granada 1,78 €/Kg, ecc.).

Per completezza di informazione e per stimolare una profonda riflessione di tutti gli interessati, specialmente addetti ai lavori, aggiungo che, sempre l’Ismea riporta, nello stesso periodo, le seguenti quotazioni: Firenze 4,95 €/Kg, Imperia 7,50 €/kg.

E’ senz’altro vero che si tratta di quotazioni riferite a “produzioni di nicchia”, cioè disponibili in limitatissime quantità (“vendibili in farmacia” le avrebbe definite un docente emerito della materia presso l’Università di Bari), ma è altrettanto vero che dimostrano l’esistenza di una domanda di prodotti di alta qualità che non è stata soddisfatta dal mercato dello sfuso.

A questo punto, è indubbiamente lecito chiedersi se il sostanziale fallimento commerciale del marchio D.O.P. “Terra di Bari” sia imputabile alla domanda o non sia, piuttosto, da addebitare all’offerta.

Che di fallimento si possa parlare è cosa certa. Basti pensare che, in via del tutto simbolica, all’olio ottenuto da oliveti iscritti nell’albo della Camera di Commercio i frantoi riconoscono un sovrapprezzo di appena 0,03 €/Kg, mentre l’iscrizione camerale non può costare meno di 60,00 €.

In altri termini, risulta che i costi fissi e variabili di iscrizione si ammortizzano con la premialità che deriva dalla produzione di circa 6 ettari di oliveto.ulivo3

Sarà anche vero che il Consorzio di Tutela del marchio deve svolgere, per legge, funzioni di controllo sull’applicazione del disciplinare di produzione e non può ottenere i finanziamenti pubblici necessari per affrontare una capillare campagna pubblicitaria, ma come assolvere anche le singole imprese di trasformazione?

Tutte quante hanno avuto ed hanno ancora la possibilità di aprire nuove frontiere commerciali all’estero, in mercati privi di grossa concorrenza (vedi l’Australia), ma quasi nessuno ha creduto e crede fino in fondo a questa possibilità, per cui neppure si avverte la necessità e l’urgenza di associarsi per risolvere i comuni problemi di marketing e di internazionalizzazione.

Concludo, senza la pretesa di aver esaurito l’argomento, rammentando esempi opposti: di un’azienda agricola non particolarmente grande di Grumo Appula che riesce ad esportare in Giappone e del presidente di un vicino frantoio cooperativo che cestina le offerte commerciali, solo perché sono scritte in lingua tedesca.

Ultimo aggiornamento Giovedì 03 Maggio 2012 21:00
 
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