CONVERSAZIONI SU IGNAZIO SILONE - 4 - DON TONINO BELLO Stampa
Scritto da Redazione   
Sabato 02 Aprile 2011 12:01

Pubblichiamo il QUARTO di una serie di dialoghi di Sudcritica

 con testimoni e protagonisti della storia del Novecento.

Temi e questioni di oggi. 

 

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Noi dovremmo essere dei ribelli

 

Intervista esclusiva
di don Tonino Bello a Sudcritica

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don Tonino Bello e Nicola Magrone
[foto Sudcritica] 

 

 

“La mia solitaria e mai celebrata ammirazione per don Tonino uomo; e vescovo”

La decisione è presa. Pubblichiamo, dopo tanto tempo dal nostro incontro, la conversazione con Tonino Bello. Ognuno di noi, in questa decisione, ci ha messo del suo. Nessuno di noi ha avuto la possibilità di portare prima a compimento questa iniziativa.

Io ci ho messo questo, nella parte di decisione che "mi spetta".

Don Tonino, come tutti i grandi uomini, ha lasciato moltissimi "eredi": chi non dice, specialmente in pubblico, che il suo maestro fu lui?

Io, nel mio piccolo, l'ho conosciuto e frequentato per motivi di seria verità. L'ho incontrato in situazioni difficili, sociali ed istituzionali. Oggi ,  per parte mia, ho appena finito di vivere una vicenda istituzionale che mi sgomenta per il suo significato di "possibilità per tutti", di grossolana dicibilità dell'indicibile. Come giudice, potrei anche sentirmi definitivamente vinto. Mi permetto, perciò, di testimoniare che don Tonino seppe bene questi miei percorsi e questi ragionevoli esiti; seppe bene l'inganno dell'istituzione onnivora, l'inanità per molti versi dell'individuo che si pretenda libero. Tante volte ho parlato con lui di Silone. Bisogna testimoniare, si è sempre convenuto tra noi. E lo faccio, decidendo anch'io questa pubblicazione.

Può darsi che nei molti "eredi" di don Tonino si risvegli l'orgoglio della libertà e della dignità del pensiero e dell'azione, e che essi si sentano e si facciano, nell'inverecondo gioco delle parti e delle apparenze, meno "eredi", magari per pudore.

Io stesso mi faccio da parte, ed affido al testo che pubblichiamo il mio affetto e la mia solitaria e mai celebrata ammirazione per don Tonino uomo; se volete, per quanto a me è possibile (ma a quelli come me che non vagano per sagrestie e per segreterie, forse è "più possibile"), per don Tonino vescovo.

Nicola Magrone

 

 

L’individuo su questa terra e la nostalgia per la fontana

SUDCRITICA - Quel che più affascina me, di Silone, è il suo rapporto eretico, conflittuale con  ogni sorta di istituzionalizzazione, di organizzazione dell’impegno e della vita stessa dell’individuo su questa terra; insomma,  la sua insubordinazione alla retorica delle "ragioni  superiori": lo vuole il partito, lo dice il partito, così si danneggia il partito, l’associazione, l’istituzione, la chiesa..., per te dovrei dire il magistero...  questo mi affascina...

 

DON TONINO - Anche me, moltissimo. E’ un’esperienza che vivo anch’io. Vivo moltissimo questo travaglio.

Per esempio, vivo molto la nostalgia delle scaturigini, della fontana; e vivo con insofferenza il peso della struttura.

La nostalgia della fontana è la nostalgia del Vangelo; non per nulla sono molto affascinato da tutto ciò che mi porta, non indietro, ma al punto di partenza.

Penso alla figura di Gesù, nel Vangelo, alla figura di Maria e poi anche ad altre figure che in un certo senso stanno pure all’inizio, in principio. Non per nulla il Vecchio Testamento comincia: "In principio" e il Nuovo anche, con Giovanni: "In principio era il Verbo", la parola. Francesco di Assisi, lui pure,  è "all’inizio". 

Proprio questo, il ritorno al principio, mi suggestiona.

E tuttavia, se per un verso vivo questa profonda nostalgia, questo richiamo, questo volermi liberare - anch’io parlo con molta libertà - un po’ da tutti i panneggi, per un altro verso sento pure il peso, il richiamo, della struttura. Solo che io, come credente, e a differenza di tanti altri che dicono la stessa cosa per ciò che riguarda altre strutture, so che la Chiesa oltre che essere struttura, istituzione è anche mistero

Questa è una visione che si è recuperata moltissimo con il Concilio. Prima la Chiesa era la "societas perfecta", la società perfetta, con i suoi casellari, e ognuno occupava un posto all’interno di questa griglia ben confezionata, ognuno aveva il suo posto, il suo ruolo, doveva compiere determinate funzioni. Dopo, con il Concilio Vaticano II, si è sottolineato che la chiesa oltre che istituzione è soprattutto mistero, cioè una realtà complessa, difficilmente descrivibile con una definizione. Una realtà che possiamo vedere solo attraverso degli oblò, cangianti per giunta. Immaginiamo uno scafo, che si rivolti nelle acque dell’oceano... c’è un oblò, attraverso il quale noi vediamo dall’esterno che cosa c’è all’interno, poi ce n’è un altro, poi un altro...

 

...ma questo può dirlo chiunque, penso; anche il nazismo, fu apparato e mistero insieme? Non voglio fare una stupida provocazione, ci mancherebbe altro. Ma di ogni "istituzione" forse si può dire che c’è la parte organizzata e poi c’è il mistero, l’oblò, quasi per nascondere e nasconderci la possibilità di capire... 

 

L’individuo e la struttura

 

Sì, ma chi non si sente comodo nella casella dell’istituzione, vi trova sempre posto, sapendo che naviga all’interno di questo grande mistero che è la chiesa.

Il peso dell’istituzione, sì, lo sento, perché sono vescovo, sono prete, faccio parte della struttura; però mi viene lasciato molto spazio perché per parte mia io sia un ministro che non fa sentire molto sugli altri il peso del suo ruolo. Io posso farlo, come vescovo: posso fare in modo che sulle spalle dei credenti non pesi il sovraccarico della struttura. Tante cose, non dico di teologia morale o di teologia dommatica, le posso demitizzare, le posso sfoltire. Tante pagine...

 

...però, don Tonino, non è una forma di esercizio di potere anche questo? E' vero che tu hai questo particolare rapporto con gli altri e questa consapevolezza critica del tuo stesso ruolo e che tanti sono invece quelli che fanno proprio il contrario; non a caso tu sei considerato un vescovo un po’ diverso, anomalo. Resta però il fatto che tu puoi esser quello che sei e puoi fare quello che fai proprio perché ed in quanto sei vescovo; non può essere così?

 

Esercizio di potere è quello di chi fa determinate cose per accrescere il suo prestigio, e così, appunto, il suo potere.

 

Effettivamente, penso che tu eserciti il tuo potere per negarlo non per accumularne vantaggi per l’istituzione, tanto meno per te. Sì, il tuo è un esercizio del potere un po’ paradossale, ma altri invece si incardinano in queste strutture per utilizzarle fino in fondo.

 

...ma questo bisogna metterlo nel conto delle strutture umane... Io però vorrei fermarmi un attimo per dire che cosa può fare un vescovo perché l’individuo, il singolo, non venga schiacciato dalla struttura. Può fare moltissimo. Quando annuncia, per esempio...

 

…ma ancora prima, se mi permetti, mi chiedo e ti chiedo che cosa può fare, un vescovo, perché egli stesso non venga schiacciato dalla struttura...

 

Mah! ...che cosa può fare perché egli stesso non venga schiacciato... dare il primato alla coscienza, alla sua coscienza. Illuminata dalla pa­rola di Dio, dalla parola del Papa, degli altri vescovi, dei con­fratelli, dalla parola della comunità. Illuminata, sì; ma la deci­sione ultima spetta alla sua coscienza. La parola che dicono il Papa, la Cei, i con­fratelli, fa luce, ma chi vede è l’occhio.

Ecco: il vescovo non deve mai rinunciare alla sua capacità di vedere.

Per me, dare peso alla propria coscienza è estremamente importante; tutti dovremmo mettere questo nella no­stra vita come imperativo etico fondamentale.

 

Questo lo capisco, certo. Anche un boia, però, si rifà alla sua coscienza: tutto, scusami la provocazione, dipende da come ammazza, da come esegue gli ordini, da come tira la catena della ghigliottina, da come inietta il veleno... tu dici: tutto può essere detto, fatto, imposto e preteso a me e da me individuo dentro una istituzione purché io non vada oltre quello che la mia coscienza mi fa sentire e giudicare come limite insopportabile dell’obbedienza; d’accordo; ma io, che dentro alla tua coscienza non sto, devo pure avere qu­alche possibilità di constatare visibilmente che questo è. Voglio dire: nelle cose, concretamente. Don Tonino non abbandonerà mai un derelitto; Nicola non chiederà mai la condanna di un innocente; Clara non falsificherà mai un fatto che racconta; Guglielmo non discriminerà mai un alunno povero.

 

Già; io di voi, che queste cose non farete mai, sono sicuro; credo che la vostra coscienza ve lo impedirebbe e so che la mia coscienza mi dice che faccio bene a credere questo. Ma tutto questo non reclama di diventare statuto visibile da tutti? ritorniamo al comandamento, all’origine alla quale tu riandavi poco fa? gli statuti, i comandamenti, le istituzioni, però, non li avevamo cominciati a vedere proprio come i luoghi nei quali la coscienza dell'individuo reclama la sua libertà?

Siamo alle verità inossidabili, di cui parlava Ignazio Silone; verità incoerci­bili sono murate all’interno della nostra natura: il rispetto dell’altro, la valorizzazione dell’altro, il rispetto della verità, il rispetto della giustizia, l’amore del prossimo. Cose proprio elementari...

Secondo me questi sono i paletti catastaliche recin­gono la zona che è di proprietà comune per tutta l’umanità. L' intangibilità della vita umana, la valorizzazione dell'altro, l'accoglimento dell'altro, il perdono... le cose assurde di cui ci parla il Vangelo.

Mi pare che proprio in una battuta tra Celestino V, Pietro Morrone, e Bonifacio VIII...

 

...la coscienza e la struttura..., appunto...

 

il monaco dice: "noi non possiamo annacquare queste verità del Vangelo, questi paradossi; non possiamo ridurli a livello di buon­senso". Ecco: questi paletti ci sono, sono disegnati.

Allora, per tornare all’interrogativo primo: che cosa può fare un vescovo per non venire stritolato dalla strut­tura? Io penso: dare un grandissimo ascolto alla coscienza. Per questo parlavo prima della coscienza illuminata. E’ una coscienza eteronoma, non autonoma. La coscienza non è mai il Parlamento dove si producono le leggi, la coscienza è il Tribunale dove c’è una legge dall’esterno che viene a fare sintesi con la mia li­bertà. Non si costruisce la legge all’interno della coscienza; la coscienza emette sentenze, non emette leggi. Facciamo un esempio: la faccenda del votare uniti o non votare uniti da parte dei cattolici. Io l’avverto come un tra­vaglio profondo. Mi dico: è possibile? Io conosco tanti credenti che sono insoffe­renti davanti a questa cartolina precetto. Anch’io l’avverto, questa insofferenza, proprio nella mia coscienza, illuminata da quello che dice il Concilio in paragrafi molto significativi  della Gau­dium et Spes; da quello che ha detto il Papa in Sudamerica alcuni mesi fa; c’è la letteratura anche di tanti vescovi che si sono espressi su questo problema. Alla fine, io devo dare ascolto alla mia coscienza.

 

“La mia coscienza”

 

Con tutto quello che ciò significa, però. Parlando di rispetto delle libertà e delle coscienze, mi abiliti a chiederti, fraternamente, quali sono le altre articolazioni, le altre possibilità; non ba­sta dire: fate quello che volete, fi­niamola con la cartolina precetto. Per spiegarmi con un esempio: tu scrivi spesso sul "Manifesto". E io sono molto contento di questo, personalmente. Ma se te lo chiedesse il "Secolo d’Italia", il giornale del Msi, lo faresti?

 

Se mi chiedesse di dire le stesse cose che io dico, sì. (Scherzando) Se mi chiede Lucifero di andare a fare un corso di esercizi spirituali a tutti i diavoli, andrei...

 

Io però mi chiedo e ti chiedo: ci deve essere un motivo perché tu scelga di esporre i tuoi pensieri da una parte o da un’altra; io non metterei mai una mia riflessione sull’obiezione di coscienza al servizio mili­tare armato nella stessa pa­gina in cui compare un articolo che sostiene la funzione socialmente terapeutica della pena di morte, non potrei mai fare una cosa del genere. Scriveresti per una pagina del genere? Lo faresti? Per carità, non dubito che ribadiresti quello che pensi; ma scriveresti per una pagina del genere?... Oppure andresti anche lì al conflitto, dicendo: "Amico, parliamoci chiaro, siamo avversari su queste cose"...

 

Se non mi chiedono sconti, riduzioni sul tasso di verità, lo faccio. Una volta, per esempio, appena uscito dall'ospedale, sono andato al porto, invitato dalla Marina Militare,  a celebrare una Messa so­lenne per la consegna della bandiera di combattimento a due navi da guerra. L’unica mia preoccupazione era il vento, perché ero uscito da poco dall’ ospedale.   M'invitano ad andare, vuoi che non ci vada? E ci sono andato; però, ho detto le cose che ho voluto io.

Si sono presentati con dei depliants, sono stati letti, si diceva "queste navi non servono a guerreggiare; sono navi di guerra, però servono a dragare le mine, a portare soccorso, a trasportare acqua, al pattuglia­mento". E allora, nel benedire le bandiere, ho detto: "Se è vero che queste navi servi­ranno per questi scopi, le bandiere svento­lino sul più alto pennone come tovaglie d’altare, se invece dovessero disattendere queste finalità per le quali si dice che sono state costruite possano afflosciarsi ai piedi del pennone come... (ridendo) stracci".

 

...no: "come sogni svaniti di eroi traditi"...

 

Naturalmente alla fine un ammiraglio si è avvicinato, mi ha salutato e mi ha detto: "Io questa sera andrò in chiesa ad ascoltare di nuovo la messa perché la messa di oggi mi ha disturbato, profondamente disturbato".

 

Ha detto proprio così?

 

Sì... così, davanti a tutti gli ufficiali... Gli ho chiesto: "perché?", mi ha detto: "Lei mi ha dato del violento. Io non sono un vio­lento. Io servo la Patria". Io ho detto: "Guardi, io non ho detto queste cose". E lui: "Io di solito capisco bene le cose che ascolto". Al che ho risposto: "Anch’io capisco bene le cose che dico".

Per tornare al discorso della coscienza illuminata... Io faccio parte di una istituzione. Più che di una istituzione, faccio parte della Chiesa, di questo mistero della Chiesa che è come una nebulosa che ha il suo nucleo ma anche le sue diradazioni e in queste diradazioni, laddove la nebulosa si schiarisce di più, entrano tutti, anche i più lontani, anche quelli che osteg­giano la Chiesa. Voglio dire, per tornare al discorso della co­scienza che per me è fondamentale: io debbo lasciarmi illuminare, debbo ascoltare quello che dicono gli al­tri miei compagni: di cordata, non di partito, quelli che vivono la stessa esperienza spirituale, di vita in­teriore. Se non ascoltassi sarei un de­spota, un tiranno, un uomo perverso; in­vece ascolto gli altri, mi lascio illumi­nare, ascolto l’angoscia del Papa, la tri­stezza  anche di certe confidenze di altri ve­scovi. Devo ascoltare il pensiero dei cri­stiani se credo veramente che lo Spirito non si lascia imprigionare dalla strut­tura, non si lascia catturare. Noi non siamo i monopolizzatori dello Spirito Santo. Anche noi vescovi, abbiamo la pienezza dello Spirito Santo; ma Lui non si lascia catturare.


E‘  vero... io sono un esperto di strutture, professionalmente. Vedo come sono: sono terribili. Per esempio, per es­sere cattivi, la struttura è anche quella che non vede che in Sicilia o in Puglia per una processione come si deve pagano i ricchi, pagano i poveri, ma pagano anche i mafiosi. E la struttura pur­troppo ha anche i suoi finanziamenti mafiosi. Eppure lì, in nome di un qual­cosa di più  importante, si chiudono gli occhi e si lascia fare: c’è la struttura che ha bisogno di alimen­tarsi, che pretende, quasi. Nelle cose, non è facile sganciarsi o liberarsi dal peso della struttura. Ho visto qui per strada, per esempio, un manifesto che diceva: "Sua Ecc. Rev.ma...". E si parlava di te. Tu sei tutto eccellente, tranne che nel fatto che lo scrivano sul manifesto. E‘ proprio all’incontrario: la tua ec­cellenza sta nel qui ed ora, nelle cose che dici e in quelle che fai. Ma la struttura perpetua, sovrappone, im­pone. E' il problema che mi  pongo...

 

La precarietà della Chiesa

 … Penso che un compito forte del vescovo -  per tornare all’interrogativo di prima: che cosa può fare un vescovo per non farsi egli stesso schiacciare dalla struttura - è quello di indicare la precarietà della struttura, che è effi­mera; anche la Chiesa... è effimera, è precaria. E’ in funzione del Regno di Dio, per usare un linguaggio forse un po’ troppo teologiz­zato. Non deve predicare se stessa. E’ precaria.

E’ come quando si costruiscono i grandi palazzi o una grande chiesa di pietra. Accanto i muratori fanno un ca­sotto in prefabbricato dove mettono gli strumenti, dove si radunano quando piove, dove hanno le carte, i progetti, dove met­tono la merenda,  depositano la giacca. Ecco: quella è la struttura. Una volta che è stata costruita la casa o il complesso edilizio, quel casotto viene abbattuto. La struttura è quello. La Chiesa - cattolica, apostolica, romana - è quel casotto.

E tutte le altre strutture noi dovremmo vederle in questa dimen­sione. Non sono l’escaton, il punto termi­nale, non sono lo sbocco definitivo verso cui con­fluisce tutto. Ecco perché la Chiesa dov­rebbe essere un indice puntato non verso il proprio petto ma verso un altro, verso il Regno di Dio. Ora, percepire con chiarezza questo e avere il coraggio di predicare anche la precarietà della struttura è una grande cosa,  per me. Ecco perché l’uomo che fa parte dell’apparato può essere anche molto provvidenziale nel temperare questa "pretesa di eter­nità", come dice Saul. Ho scritto una let­tera a Saul...

 

... sul potere che si can­dida ad essere eterno. Ogni potere, ogni struttura si candida ad essere eterna. Tu invece dici: si può avere una funzione di corto circuito, all’interno della struttura, e temperare questa pretesa. Si può avere...? Vorrei chiederti anche: a te non è mai capitato di dover fare da tramite di precetti morali predicati dalla Chiesa-struttura ma che non tutti, fuori della Chiesa e dentro alla Chiesa stessa, hanno condiviso? sull'aborto, per esempio?

 

Per l’aborto, in verità, c’è poco da discutere: se si giunge a concludere, anche sulla base di argomentazioni mediche e scientifiche, che ci si trova davanti a una vita, sia pure allo stato incipiente, se si giunge a concludere questo, credo che l’ulteriore conclusione del no all’aborto sia anche abbastanza scontata.

Mentre meno scontato è il documento "Humanae vitae", il documento di Paolo VI che dichiarava non ammissibili i metodi anticoncezionali, e la pillola in modo particolare. Allora c’è stato un sussulto in tantissime coscienze. Ecco, anche qui la capacità dell’uomo della struttura, la capacità del vescovo, dell'evangelizzatore, del cristiano più adulto che provoca l’educazione dei fedeli, è quella di far  vedere la legge...  non di temperarla, di annacquarla, non di ammorbidirla; di far vedere la funzione educativa, pedagogica della legge.

La Chiesa anche quando esprime  precetti morali indica delle traiettorie, mette dei cartelli stradali: non appende sul petto dell’uomo il cartello condannato. Indica gli spazi dove veramente la libertà umana può crescere.

 

Ma che cosa si dice allora, in pratica, che cosa dici tu...?

 

Che cosa si dice... io ascolto, intanto; mi guardo bene dal dare regole generalizzate che possono apparire regole di condanna o di assoluzione, ma ascolto coloro che di volta in volta si trovano in questo travaglio spirituale. E se vengono due e mi dicono che per loro è veramente molto difficile non adoperare, per esempio, i metodi anticoncezionali che la Chiesa condanna, perché stanno vivendo una vita di comunione molto difficile, molto disturbata, perché vivono lontani per motivi di lavoro e nei momenti in cui si trovano vicini non possono adoperare i metodi naturali, perché hanno tre o quattro figli e vivono in condizioni di precariato, io vescovo che cosa devo dire?

 

Che devi dire?

 

“Sta incinta. Di nuovo?”

 Che cosa devo dire... Se la soluzione la scrivo su un libro, sembra quasi una previsione valida per tutti, un precetto morale...

E‘ come nelle interviste ad un giornale... diventa una frase ad effetto...

Quando ero parroco a Tricase, ogni venerdì ci riunivamo alla Caritas e aiutavamo una famiglia di poveracci - lei era un po’ mentecatta, poverina, lui lavorava come un facchino, faceva il garzone di forno - avevano figli, ce li avevano in tutti gli ospizi, di Montesardo, di Maglie, di Lecce... quando arrivava Natale dovevamo spartirci: voi andate lì, voi lì, voi lì,  voi lì... 13 o 14 figli...; ogni tanto: "sta incinta"... allora bisognava  preparare i pannolini, la culla...  Al quarto anno ho chiamato un dottore e gli ho detto: "perché non vai a spiegarle che può prendere la pillola..." Ma era l'unica cosa... mica potevi spiegarle il metodo Ogino-Knaus... o il metodo Billings... è chiaro? Io penso che in quelle circostanze la capacità di mediazione è fondamentale.

La Chiesa dando le indicazioni dell’Humanae vitae indica senz’ altro dei valori, in un modo aspro, con cartelli che sono luminescenti fin troppo e danno fastidio, ma indica  degli spazi di libertà. Tutta la legge morale va interpretata così. C’è gente che è estremamente egoista e che adopera il metodo Ogino-Knaus, ritenuto benedetto dalla Chiesa. Ma la Chiesa non ha benedetto niente. Anche questo metodo se viene adoperato con intendimento egoista è un peccato più grosso che prendere la pillola.

 

Ma anche questo può finire con l'essere un canone, un precetto troppo rigido: che cioè anche utilizzando un metodo anticoncezionale naturale, se lo faccio, diciamo così grossolanamente, per "farla franca", commetto un peccato ancora peggiore. Ma insomma: posso non volere un bambino e voler bene e voler fare l’amore?

 

Non vorrei essere frainteso. Non sto valutando questo. Poniamo che due coniugi abbiano deciso di chiudersi alla vita, abbiano deciso: "non vogliamo  avere figli perché vogliamo essere più liberi", e ammettiamo anche che dicano: "però siamo dei begli egoisti tutti e due"; "sì, è vero, Angela", dice lui; "è vero, Michele", dice l'altra, "siamo egoisti"...  si giudicano già loro stessi in una situazione di non apertura, perlomeno; però sono bigotti. Allora, per poter mantenere questa loro scelta dicono: "la pillola, no... sai che la Chiesa..."; scelgono il metodo Ogino-Knaus: tutto funziona, non hanno figli, vanno avanti in quella solitudine spirituale già giudicata da loro come egoista. Il peccato non sta in una tecnica, nella pillola o nella genesità dei giorni... il peccato è radicato a monte, dipende dalle scelte che uno ha fatto, quelle anteriori.

 

sì... ma è consentito un rapporto di coppia che non si ponga "la prospettiva di un figlio" o è un peccato? Ed è scontato che, se è peccato, lo si avverta come colpa?

 

Sì, io do per scontato che lo si avverta.

 

Lo si avverte perché ci sono gli altri, perché ci sono le regole, o lo si avverte realmente dentro di sé?

 

...perché se non si avvertisse che è peccaminoso allora...

 

... ma sono le regole che ci vengono dettate a farci sentire  in peccato...

 

Senti,  per te c’è o non c’è la possibilità che l’uomo sbagli, che pecchi?

 

Dipende dalla terminologia, dalle categorie, dal sistema di riferimento. Anche secondo me esiste la categoria del peccato: se ti do uno schiaffo in questo momento, tu chiamalo peccato, chiamalo abuso o come vuoi, certamente è una cosa che non devo fare. Io non ti posso schiaffeggiare; se tu mi chiedi perché, non so risponderti. Credo che sia qualcosa che viene molto prima di me e di te. Ma non sempre è così; spesso il "non si deve fare" dipende dalle regole che di volta in volta ci si dà: pensiamo alla sciagurata legge sulla droga, alla illiceità dell’uso della droga definita per legge. Qui è lo Stato, addirittura, che detta regole etiche: uno che si droga è già in colpa per il semplicissimo motivo che da tutti gli altri chi si droga è giudicato in colpa. Ma uno che si droga è in colpa? Non uno che spaccia, uno che soltanto si droga...

 

E’ molto difficile. Gesù si è astenuto dal giudicare in colpa i peccatori con i quali si è incontrato. All’adultera: "Nessuno, donna, ti ha condannato?" - "Nessuno, Signore!". "Neppure io ti condanno". Non è un gesto, una parola di benevolenza detta dal Signore. E’ proprio una affermazione che dev’essere per noi schema, prototipo,  paradigma. Non possiamo giudicare. Nei rapporti con la gente noi dovremmo essere capaci di dare spazi di futuro. Questo per me è fortissimo.  Non ci fossimo altro che per questo, noi della giungla nera della Chiesa, dovremmo essere uomini di speranza, che fanno credito alle possibilità della persona.

Tu hai detto: ciascuno di noi ha dei punti di riferimento e poi è la coscienza che entra in ballo. E allora io che devo fare rispetto a una legge brutale come quella?

 

Il Giudice e il Prete

 

In questo vedo la differenza del rapporto tra te, che sei giudice, e l’istituzione e me, che sono vescovo, e la Chiesa. Tu sei chiamato ad applicare le leggi che vengono date: dove vedi l’iniquità di questa applicazione supina tu devi creare coscienza critica tra i tuoi colleghi, all'interno dell’apparato, delle strutture perché ci sia una mobilitazione delle coscienze, una specie di obiezione di coscienza. Il rapporto invece tra me e la Chiesa non è quello di prendere un dettato della Chiesa, che viene dal Papa magari, e applicarlo al caso. Io devo fare una sintesi tra la coscienza della persona e il dettato che mi viene dall’alto. Devo tagliarlo su misura, devo personalizzarlo, devo dialettizzarlo secondo il suo linguaggio, devo temperarlo e soprattutto devo dire che anche questa legge che viene dalla Chiesa è una legge di tensione, è qualcosa che indica valori e che la cosa più importante è la ricerca di questi valori, che stanno dietro la formulazione della legge. Questo devo farlo capire costantemente perché, se no, non serve a nulla. Se dico: "non rubare, non abortire" e non indico i valori che stanno dietro, otterrò un gregge supino che applica una legge perché così vuole il padrone, così vuole il capo, ma non ho fatto crescere le persone. Io invece devo indicare l’ "ulteriorità", devo incalzare, essere spina di inappagamento conficcata nel fianco della gente, al di là di tutti i dettati della legge. Al di là del non uccidere, del non fare adulterio... Anche dietro il non fare adulterio quale valore c’è? Starei per dire che non so se è giustificabile uno che obbedisse alla lettera, supinamente, a tutto il dettato della legge fino a diventare inappuntabile,  irreprensibile, ma non mostrasse nel suo stile di fondo nessuna ricerca dei valori che stanno al di là di quegli schemi normativi.

 

Noi due ci siamo conosciuti in una circostanza molto bella, molto complicata, molto triste... molto istituzionale; nella quale  vedo una possibilità di spiegazione, da parte mia, di ciò che voglio più precisamente dire. Fu quando furono fermati alcuni operai delle ferriere. Fui avvertito dai carabinieri: seppi che si trattava di scioperanti, la fabbrica era chiusa, c’era una situazione terribile, avevano bloccato i treni... Corsi là perché capii che stavano per arrestarli...

Ero chiuso nell’ufficio del maresciallo e stavo interrogando queste persone. Ad un certo momento bussano alla porta e mi dicono che c’è il vescovo di Molfetta. Entra e mi chiede se fossi il giudice andato lì per giudicare questi poveri rivoluzionari... Mi spiega le ragioni di quegli operai, mi dice: "questi stanno male, è stata chiusa la fabbrica". Alla fine - lo ricordo perfettamente - mi dice che se, a mio giudizio, gli operai avevano commesso qualcosa di illecito, questo qualcosa di illecito  l’aveva commesso anche lui. ... un'autodenuncia. Io non voglio ora dire quale era il mio approccio con il problema, insomma se li avrei arrestati o meno. Fermiamoci all’impatto che io ho avuto con quella tua apparizione e con quel tuo concetto elementarmente giusto.

In quell’episodio sei stato letteralmente eversivo rispetto al mio dovere di applicare la legge. Non hai assunto nei miei confronti l’atteggiamento di chi mi riconosceva in quel momento il diritto-dovere di applicare la legge, non sei venuto a testimoniare sui fatti. Tu mi hai detto: "quei fatti, che sono veri, quelle cose, che hanno commesso, le hanno commesse giustamente perché sono vittime, perché sono deboli..." Mi hai cioè portato le loro ragioni che andavano ben oltre la pura necessità di applicare la legge. Lasciamo perdere la circostanza che tu incontrasti me  e che io non vedevo l’ora di incontrare uno che mi dicesse quello che mi dicesti tu. In quel momento sei stato eversivo anche rispetto a ciò che tu dici ora sulla differenza tra me e te che sei più libero nell’applicare la legge e adatti la legge alla persona con la quale hai a che fare. Lì, hai applicato il tuo sistema etico e morale non più su una persona che è venuta da te ma su un giudice che hai preso e hai trattato da uomo a uomo dicendogli: "con tutto l’apparato che ti porti addosso, io ti dico che gli operai hanno ragione".

Io li mandai a casa e nessuno fu arrestato. E lì, però, potremmo aver violato la legge tutti e due: io quella dello Stato e tu perché, pur applicando la tua legge, fosti mandante della violazione della legge mia.

Ho ricordato questo episodio perché quando ti ho detto: "che fa un giudice rispetto al drogato che deve far arrestare?", tu mi hai risposto: "tu devi applicare la legge…". Già; ma io ho bisogno invece di inciampare continuamente non dico in un vescovo, ma in un prete, in un uomo, in una persona che mi dica: "amico, guarda che se quello ha fatto qualcosa per cui si merita l’arresto, mi merito anch’io di essere arrestato". Il mio vissuto dentro l’istituzione non può vivere per conto suo, in una dimensione autonoma, che si autogiustifica. Tu invece mi hai un po’ respinto nel mio recinto e ti sei tenuta per te la tua libertà.

 

Forse ho io una visione sbagliata del giudice. Non so se nella funzione del giudice rientra anche l’additare aldilà della legge. Nella vostra funzione c’è forse il compito di indicare valori?

 

Per questo pongo il quesito... Ricorderai anche, per esempio, quegli extra-comunitari bloccati su una nave che li aveva portati nel porto di Bari  e  che invece  non volevano far sbarcare... fu una cosa terribile. Da una parte polizia, carabinieri, il ministro dell'interno,  e dall’altra l’istanza puramente morale rappresentata da te. Per me fu un tormento e quasi diventò una violenza. Mi capitò di pensare: "E’ facile per voi predicare la carità". Ma la polizia li può massacrare... Avevo bisogno di qualcuno che dicesse: "Fai bene ad opporti". L’invasione di campo diviene così necessaria ed eversiva. Tu venisti, e giustamente, come pellegrino. L’arcivescovo di Bari venne con un monumentale corteo: macchine, polizia... Io dissi ad un poliziotto: gli vorrei dire una cosa. Perché gli volevo dire: "Mi dia una mano". Ma andava di fretta. Allora, ecco il problema del rapporto dell’uomo con l’apparato, con l’organizzazione, con l’istituzione. Silone su questo ha perso. A te, don Tonino, non è capitato mai di trovarla davvero questa difficoltà nel rapporto con la tua istituzione?

 

Alla Chiesa dico anche di no e al cappellano militare: “esci dalla struttura”

 

Sì. Con l' Huma­­nae vitae ho vissuto un conflitto molto forte. Io li intuisco i valori che stanno dietro alcune prese di posizione della Chiesa ma se mi accorgo che si tratta invece di meri comandi autoritari, dico anche di no. Mi è capitato tante volte... l'altro giorno mi hanno telefonato da La Repubblica e  mi hanno chiesto: "è vero che in occasione delle votazioni hanno mandato a tutti i vescovi una circolare in cui si dice che bisogna votare un determinato partito?". Io ho detto: "da dieci anni sono vescovo e non mi è mai capitato di avere lettere o cartoline precetto di questo genere, e neppure stavolta. Comunque se arrivasse una lettera di questo genere io mi ribellerei". A me è dispiaciuto che abbiano messo questa frase tout court, scarnificata, in testa a un articolo. Sembra quasi che voglia fare il sovversivo. Però io lo ripeto: se  arrivasse una cosa del genere chiaramente contrastante con la mia coscienza, mi opporrei: non perché io voglio che si voti questo o quel partito, ma è che non mi va di sentir violata, messa in ombra l’appartenenza cristiana di Antonio, di Guglielmo, di Mauro... sol perché non votano quel partito... non mi sembra giusto.

 

Facciamo un altro esempio, estremo.  La benedizione ai condannati a morte. Tu, in fondo, finisci col dirmi: in nome del principe o del popolo, tocca a te il compito di decidere: "devi morire". A me, prete, quello di stare, da uomo a uomo, con chi vive la morte. Con questo, però, non ti metti al riparo dalle tue responsabilità nella condanna a morte e dalle tue distrazioni da ogni forma di fascismo? Insomma, il cattolico può stare dovunque. Quanti di loro stanno tra i comunisti? Vedi, don Tonino, possiamo giudicare come vogliamo il boia, il fascista, il comunista, il democristiano e quel che vuoi; posso, però, pensare e dire che il cattolico che sta col boia è un boia, il cattolico che sta col fascista è un fascista, un democristiano, un comunista? Chi vi dà il diritto di sentirvi il punto fermo di tutto e per tutti che niente e nessuno influenza di sé? non devo permettermi mai di giudicarti per quel che sei e per quel che fai?

 

No. Con i cappellani militari infatti è come se dicessimo: "la guerra i soldati la fanno, almeno che ci sia qualcuno che vada lì e li tenga buoni, li educhi cristianamente". E così sembra quasi che giustifichiamo quella struttura. Io dico però che quella struttura non è una cosa buona e che bisogna cambiare. Quando dico che i cappellani militari non vanno accettati come facenti parte integrante della struttura militare, in fondo so bene che non ci dev’essere questa giustificazione: lo Stato fa la guerra, noi andiamo lì a educare cristianamente.

 

Un cappellano militare, in periodo di guerra, può farlo scappare un condannato a morte?

 

Come no... come no... Se fa parte della struttura, la prima cosa che gli debbo dire è: "esci dalla struttura". Ma anche stando nella struttura deve prestare orecchio alla sua coscienza, l’ho detto tante volte durante la guerra del Golfo.

Se un militare sta per  sganciare  delle bombe su di una città e viene preso da un movimento di coscienza che gli dice: "Io sto ammazzando della gente", e viene a chiedere a me: "Vescovo, che cosa devo fare?", io gli devo rispondere: "che cosa ti dice la tua coscienza?" - "La mia coscienza mi dice che sto ammazzando le persone" - "Allora, torna indietro!"

 

E quello risponde: "ma mi fanno fuori!"

 

..."torna indietro e corri anche questo rischio". Molti mi hanno detto: "Tu però queste cose le dovevi dire al pilota prima che si arruolasse per fare il militare". Ma io gliele dico anche allora.

Quali valori più grandi ci sono oltre alla dignità dell’uomo e alla grandezza della vita umana che non può essere assolutamente violentata da nessuno (nemmeno il Padre Eterno lo fa)? Di fronte a queste cose, chi avverte la precarietà della legge, l’effimero della legge che non salvaguarda il valore ulteriore, deve ribellarsi, deve esprimere una ribellione che fa prendere coscienza anche agli altri, promuovendo un cambiamento culturale, un nuovo ordine giuridico.

 

Tornando a Silone, vorrei farti una domanda. La questione che mi ha avvicinato a lui è la sua intuizione che a un certo punto le strutture, che nascono da un mandato originario di servizio, diventano poi un freno e un ostacolo a questa coscienza liberata. Esse rischiano di diventare il vero ostacolo alla liberazione. Silone questo lo ha visto nella Chiesa, nel partito. La domanda che ti faccio è: "a che cosa servono le strutture, quando ci si accorge

 

Io intanto voglio rivendicare la bontà originaria delle strutture. Pensiamo che anche Cristo ha scelto la struttura umana per potersi incarnare: è entrato in una cultura, in un modulo di pensiero, in uno schema, in un tempo preciso della storia, è entrato in una struttura. La bontà originaria della struttura mi sembra di doverla difendere proprio in forza di questa considerazione: che la struttura  è un mezzo, un vettore che ti conduce al raggiungimento della realizzazione tua personale o comunitaria. Se poi, questo vettore impazzisce...

 

… ma non è che impazzisce accidentalmente... L’esperienza ci dice che tutti i movimenti ad un certo punto hanno un irrigidimento strutturale, istituzionale, e diventano il rovescio di ciò per cui sono nati. Questo è accaduto per i francescani, per Marx, per tutti...

 

Ma ecco la necessità di considerare costantemente questo moto di  incarnazione e trascendenza insieme. Perché un’ idea possa camminare deve entrare nella struttura. Però ad un certo momento deve anche trascendere la struttura e uscirne, altrimenti si assolutizza la struttura. Questa è portata per natura stessa ad autoconservarsi; le lotte più feroci le fanno tante persone di potere non per raggiungere il potere ma per conservarlo. La conservazione del potere provoca più sangue di quanto non comporti la conquista del potere. Bisogna costantemente avere questa capacità critica per sapersi  estraniare dalla struttura, per saperne uscire.

 

E’ l’"uscita di sicurezza"...

 

Uscire da una struttura, però per entrare in un’altra.  Uscire da quel tipo di chiesa, di società...

 

La cosa più intima che spesso mi dico è che forse la vicenda Chiesa è proprio una metafora di questa dialettica ultima delle cose. La Chiesa rappresenta l’istituzione che emblematicamente racchiude tutte le vicende che nel corso della nostra vita incontriamo. Tu, don Tonino, avevi ragione a sottolineare le differenze tra il rapporto con la Chiesa e quello con le altre istituzioni, con le altre strutture. In questo senso il rapporto con la Chiesa è molto più sofferto, perché sai che è l’istituzione ultima dentro alla quale puoi vivere questo rapporto, sai che dentro non ci puoi stare con la coscienza pacificata, fuori non ci puoi stare perché comunque sarebbe una fuga dal problema; è questa la contraddizione insanabile che ti porti dentro. Questa è la tragedia …dentro non ci puoi stare accanto a Ruini, a Ratzinger con tutto quello che rappresentano... e fuori non ci puoi stare perché comunque significherebbe porti fuori da questa dinamica. E’ un dovere morale starci dentro.

 

 

Quelli che rimasero all’interno della struttura.

Da Primo Mazzolari a Zanotelli

 

Pensiamo a tutti coloro che sono rimasti dentro: quale metanoia hanno provocato, quale cambiamento di mentalità! Penso a un don Primo Mazzolari, penso a un David Turoldo, penso a Balducci... Balducci aveva tutte le qualità per essere mandato al rogo, però è rimasto. Turoldo, Zanotelli che cosa non provocano? Questa gente parla con molta franchezza e coraggio, con molta parresia. Ecco, la parresia...  è una categoria biblica, degli Atti degli Apostoli, e significa parlar franco, parlare con chiarezza, senza aver paura, di nessuno. Quanta gente c’è che, rimanendo dentro la struttura, parla con coraggio e provoca cambiamenti. Ci sono smottamenti come da un’era geologica all’altra, all’interno della Chiesa. Quando penso a 30 o 40 anni fa e poi a quello che oggi si respira...

 

…è meglio, oggi?

 

Meglio. Voglio dire: uno ha la possibilità di parlare. Credo che quando si sbloccheranno alcuni reticoli di prudenze carnali, veramente la Chiesa entrerà in tempi nuovi e la libertà invaderà i pulpiti e gli altari.

 

Sì; ma io vedo che anche voi non siete sempre all'altezza di questo dovere di parlar chiaro: sulla vostra rivista avete tutto sommato difeso la cosiddetta superprocura, con parole ambigue. Io, che pure faccio parte della Procura, ho scritto contro la "Superprocura". Non ne faccio un merito. Sto dicendo che tra gli errori che si possono commettere ci sono gli errori come quelli che commetto io. La "Superprocura" a mio parere è un modo liberticida per affossare tutte le speranze di cui parlavamo prima: quello di nuovi ordini che si fondino su dinamiche etiche e morali nuove; è un modo per creare nuovi ordini bloccati e incapsulati al fine di controllo non certo sul mafioso ma su don Tonino, non certo sul camorrista ma sul pubblico ministero di un certo tipo... E’ un grande imbroglio istituzionale. Di fronte al quale si può avere un atteggiamento come quello di Cossiga, critico ma compatibile, si può essere ambiguamente problematici come avete fatto voi o si può avvertire il dovere di dire anche dentro l’istituzione di cui fai parte: "Alt! Oltre questo non si va, perché capisco, sento che domani mi chiamerai a condannare don Tonino per quello che pensa, capisco che mi stai portando lì". Posso fare l’ equilibrista per mio tornaconto, quantomeno esistenziale, per il mio quieto vivere. Ma lo so bene che prima o poi sarò chiamato a dire: " mi dispiace ma la legge è legge, mi dispiace, ma non si può..." Mi guarderò intorno e avrò  bisogno di don Tonino, di qualcuno da fuori che mi dica: è sbagliato. Un piccolo meccanismo di rotture di schemi e di apparati che poi faccia diventare tutto più morbido, tutto più fragile.

Così, la posizione della Chiesa in Sicilia: forte, bella, nobile per tantissimi aspetti. Torbida, cupa per molti aspetti per cui chiede più Stato, più Stato. Invocazione strumentale, tipica dei tempi, del momento, dell’emergenza, senza il respiro che porti a dire: "quale Stato?", più case vuoi dire o più caserme, più lavoro o più mitra di finanzieri? Non è che io voglio che ci sia la mafia, ci mancherebbe altro; non è che io voglia che si ammazzino le persone, tutto il contrario; ma non voglio nemmeno che si distrugga questo sistema democratico, di regole, di principî.

 

Tutte le invocazioni autoritarie sono equivoche, devono far pensare; tutte le richieste di mano ferma, di pugno forte, sia pure temperato dal velluto del guanto, sono ambigue, tutte ambigue. Torniamo al punto nodale da cui dovrebbe ripartire una coscienza nuova: l’educazione. Quando penso che noi vediamo passare tanta gente dalle nostre chiese, la domenica. Tutti i bambini d’Italia, tutti i ragazzi d’Italia passano dai nostri catechismi. Chissà che peso specifico potremmo avere nella preparazione di queste coscienze, nell'educazione alla libertà! Quando si invoca invece l’autorità è penosissimo.

Io sono della diocesi di Santa Maria di Leuca, profondissimo Sud, dove hanno deciso di raddoppiare i commissariati di polizia, a Taurisano, a Neviano: la gente ha salutato questo come una liberazione, perché così si sente protetta. Per me questo è il segno del nostro fallimento, ci mortifica, perché ben altre sono le strade... l'educazione, l'apertura delle nuove generazioni veramente è fondamentale.

Resistere in faccia all’autorità non è un fatto eretico. Negli Atti degli Apostoli si racconta di Paolo il quale resiste davanti a Pietro (dice: in faciem Petri restiti = mi sono opposto faccia a faccia con Pietro).

Pietro sosteneva che chi si faceva cristiano doveva farsi prima ebreo, con tutte le conseguenze (la circoncisione, non mangiare determinate carni, acquisire la filosofia ebrea) e poi diventava cristiano. San Paolo che aveva l’esperienza del mondo pagano diceva che questo non era possibile e in pieno consiglio fa una contestazione solenne a Pietro: in faciem Petri restiti. E’ un esempio di come all’interno della struttura tutti coloro che ne fanno parte possono dare un contributo di cambiamento. Anche perché poi, quando parliamo di struttura, io credo che siamo tributari di un immaginario secondo cui ci sono delle caselle e noi siamo gli uomini che vanno a riempirle. Ma in fondo non ci sono queste caselle. Siamo noi la struttura. C’è Cossiga, c'è Fanfani, c'è Andreotti, questo e quest’altro... Noi immaginiamo che ci sia prima la poltrona e poi quelli che si siedono sopra. Invece ci sono soltanto le persone che si siedono sopra.

 

Gesù l’eversivo

 

Non c’è un prefabbricato, un armadio, un telaio che gli uomini vanno a riempire. Questo rapporto personale ha una forte incidenza nel mutamento della coscienza, nel cambio della mentalità. Sembra che si tolgano i libri e se ne mettano altri,  si tolga Andreotti e se ne metterà un altro, si tolga Giovanni Paolo II... Invece non è così. Questo schema prefabbricato, predisposto non c’è. In fondo è problema di uomini. Non si tratta di scardinare le scansie ma di cambiare le mentalità. Ecco perché ha una grande valenza la rivolta, la ribellione. Noi dovremmo essere dei ribelli, degli eversivi. In fondo la Pasqua per noi credenti è un fatto di eversione unico. Gesù Cristo è stato un eversivo, uno che ha scardinato il modo di pensare degli altri. Francesco d’Assisi, tutti gli uomini grandi, che sono stati anche loro all’interno di una società,  di una cultura, l’hanno però cambiata.

 

Però se uno fa il Francesco d'Assisi oggi - non è una battuta -  rischia di andare in manicomio...

Tu sei contento, don Tonino,  che sia finito il comunismo?

 

Mi dà molta sofferenza l’acredine; il trionfalismo, intanto dei capitalisti ("avevamo ragione noi") e poi soprattutto questo infierire nei confronti dei comunisti... Quando penso ai comunisti del mio paese mi fanno un dispiacere enorme. Mi fanno una tenerezza incredibile. Questi operai che hanno lavorato e lavorato. Ad Alessano il fondatore del Pci è stato uno zio mio. Adesso è morto,  ma se vivesse... E' come se per un cristiano fosse assodato che Gesù Cristo non c'è stato... E poi questo infierire...

 

Io non sono stato mai comunista, almeno tanto quanto lo sei stato tu... E tuttavia mi chiedo: il comunismo è finito perché veramente è finito o perché lo hanno fatto fuori i comunisti? Anche lì si torna al problema dell’uomo e dell’organizzazione.

 

Può darsi che sia finita la struttura anche qui.

 

...e torniamo al discorso dal quale eravamo partiti...

 

...la trascendenza di una idea che si è incarnata in una determinata struttura. E poi la trascende, perché, se no, è condannata a morire con la struttura.

 

Hai ragione, ma  io non sono per niente dispiaciuto che sia finita una certa struttura.  Pensa che cosa ha a che fare il comunismo con il comunismo storicamente dato, quello che abbiamo vissuto noi in Italia (lasciamo stare la Russia); ...poniamo, rispetto al sequestro e all’uccisione di Moro. Che cosa c’è stato di più truce, brutale, cieco, disumano dell’atteggiamento dei comunisti-apparato, non dei comunisti-tuo zio, il fondatore, l’operaio, l'umanità? Io son contento che sia finita quella organizzazione comunista. Perché era portatrice anche  di violenza, di chiusura, di cecità. Tutto quello che è accaduto ai e tra i comunisti non può finire per riaprire le speranze nel comunismo, che dici?

 

In questo scoppiare delle doghe, della tinozza, io vedo veramente una liberazione. Scoppiano le doghe, ma il vino che scola per terra è sempre quello. Noi oggi dovremmo essere, specialmente all’interno della Chiesa, capaci di... Non c'è nessuno che si sta assumendo l'incarico non dico di essere l'esecutore testamentario, ma di fare l’elenco di tutte le cose buone che l’esperienza comunista ha provocato. Bisognerebbe farlo. Ci sono state delle cose inique, tantissime che vanno rifiutate. Però anche...

 

...c’è tutto un carico di tensioni, alla tuo zio insomma,  che rischia di essere sepolto insieme alla struttura. Questo è un grande rischio, che però bisogna correre. Perché se non si corre non si liberano coscienze...

Ma si può correre questo rischio solo se si accetta il rischio di mettere in discussione la propria appartenenza... Bisogna che pure tu, don Tonino, ti ponga nella prospettiva che potresti benissimo non essere vescovo, non come grado intendo...

 

…io sarei felice se mi dicessero... (silenzio di imbarazzo)

 

Sì. Hai rifiutato tre volte prima di accettare di diventare vescovo...

 

E va bene. Abbiamo concluso analoghe discussioni con Canfora e con Balducci con questa storia, l’aneddoto che Silone racconta e che ti leggo...:

 

Il bambino-marionetta di Silone

 

““Ricordo una vivace discussione sorta un giorno nella classe di catechismo, tra noi ragazzi e il parroco. Ne fu causa una rappresentazione di marionette alla quale noi ragazzi, assieme al parroco, avevamo assistito il giorno prima. Il soggetto, lo ricordo benissimo, esponeva le drammatiche peripezie d'un bambino perseguitato dal diavolo. A un certo punto il bambino-marionetta era apparso sul proscenio tremante di paura e per sfuggire alle ricerche del diavolo si era nascosto sotto un lettino che occupava un angolo della scena. Poco dopo era sopraggiunto il diavolo-marionetta e l'aveva cercato invano.

“Eppure dev'essere qui”, diceva il diavolo-marionetta, “sento il suo odore. Adesso chiedo a questi bravi spettatori”. E rivolto a noi, aveva chiesto:

“Cari miei ragazzi, avete forse visto nascondersi in qualche posto quel bambinaccio che io cerco?”

“No, no, no”, immediatamente gli rispondemmo in coro e con la più grande energia.

“Dove si trova dunque? Perché non lo vedo?”, insistè il diavolo.

E' partito è andato via”, noi gli rispondemmo, “è andato a Lisbona” (nel nostro parlare e nei nostri proverbi, Lisbona è ancora oggi il punto più lontano del globo).

Devo spiegare che nessuno di noi, andando allo spettacolo, prevedeva di essere interpellato da un diavolo-marionetta; e il nostro comportamento era stato pertanto del tutto istintivo e spontaneo. E suppongo che, probabilmente, in qualsiasi altro paese del mondo, davanti all'identico spettacolo, i bambini reagirebbero alla stessa maniera. Ma il nostro curato, una colta e pia persona, con nostra sorpresa, non fu interamente soddisfatto. Ce lo spiegò con rammarico nella piccola cappella di Santa Cecilia ove di solito egli impartiva le lezioni di catechismo. Quel luogo a noi ragazzi era assai gradito perché la martire romana vi era raffigurata sull'altare, assorta e melanconica, e con un oggetto tra le braccia somigliante in modo strano all'utensile domestico, chiamato “chitarra”, che nelle nostre case serve a fare gli spaghetti all'uovo. L'immagine ci attirava a tal punto che, per sottrarci a quella seduzione, almeno durante l'ora di catechismo, il curato era stato costretto a disporre i banchi di noi ragazzi in modo da costringerci a voltare le spalle a Santa Cecilia.

“Il vostro comportamento durante la rappresentazione delle marionette”, egli ci disse dopo averci imposto di sedere, “mi è dispiaciuto”.

Noi avevamo detto una bugia, egli ci avvertì preoccupato.

L'avevamo detta a fin di bene, certo, ma era pur sempre una bugia. Non bisogna dir bugie.

“Neppure al diavolo?” domandammo noi interdetti.

Una bugia è sempre un peccato”, ci rispose il curato.

“Anche davanti al pretore?” domandò uno dei ragazzi. Il parroco ci redarguì severamente.

“Io sono qui per insegnarvi la dottrina cristiana e non per fare pettegolezzi” ci disse. “Quello che succede fuori della chiesa non m'interessa”.

E tornò a spiegarci la dottrina sulla verità e sulle bugie, con bellissime e difficili parole. A noi bambini però non interessava, quel giorno, la questione delle bugie in generale; noi volevamo sapere: “Dovevamo rivelare al diavolo il nascondiglio del bambino, sì o no?”.

“Non si tratta di questo”, ci ripeteva il povero curato veramente sulle spine. “La bugia è sempre peccato. Può essere un peccato grande, uno medio, uno così così, e uno piccolino; ma è sempre un peccato”.

“La verità è”, dicevamo noi, “che da una parte c'era il diavolo e dall'altra c'era un bambino. Noi volevamo aiutare il bambino, quest'è la verità”.

“Ma avete detto una bugia”, ripeteva il parroco. “A fin di bene, lo riconosco, ma una bugia”.

Per farla finita io gli mossi un'obiezione d'una perfidia inaudita e, tenuto conto dell'età, piuttosto precoce.

“Se invece d'un bambino qualsiasi si fosse trattato di un prete” gli chiesi “che dovevamo rispondere al diavolo?”

Il parroco arrossì ed evitò una risposta, imponendomi, come punizione per la mia impertinenza, di restare tutto il resto della lezione in ginocchio accanto a lui.

“Sei pentito?” mi chiese alla fine della lezione.

“Certo”, gli risposi. “Se il diavolo mi chiede il vostro indirizzo, glielo darò senz'altro””.

 

Tonino - In teologia abbiamo studiato la possibilità per uscire da questo dilemma: la verità o la carità.

 

Sudcritica - Come?

 

Attraverso la formula delle cosiddette riserve mentali.

 

Bisognava darlo il bambino?

 

No, nel modo più assoluto, proprio per questa riserva mentale... Significa attaccarsi alle ragnatele, ma... In questo caso qual è il valore in gioco? Il valore della salvezza di un uomo.

 

Ma quest'uomo può essere cattivo...!

 

Che importa?

 

Quando ne abbiamo parlato con Fabrizio Canfora, lui dal punto di vista del marxista diceva: "Sì, bisogna salvare il bambino, però bisogna vedere che bambino è. Perché se salvare quel bambino significa compromettere la causa, io non lo devo salvare. Balducci o io, o Clara... diciamo: compromettiamo la causa. Mettiamo dunque un eretico, uno che attenta ai principî di fondo della chiesa, della religione, un pericolo; ma in quel momento sei tu che puoi decidere della sua sorte: lo devi salvare o dipende da che bambino è, da che uomo è, da quel che significa?

 

Io lo situo nella collocazione del racconto e dico: i ragazzi hanno fatto bene a dire no, non l’abbiamo visto con una coscienza tale da poterlo dire a te. Il no ci sta sempre bene. Anche perché... (ecco la riserva mentale) non l’ho visto con una coscienza tale da poterlo dire a te.

 

Anche se quel bambino è proprio lui il diavolo? Anche se il bambino, un uomo, una persona è il cattivo della situazione e dipende da noi quattro se deve andare a morte o no?

 

Se è uno che ha provocato del danno, che merita di essere punito... se non si sovverte tutto...  All'interno di quel racconto,  i ragazzi hanno fatto bene a dire: no, non l’abbiamo visto. Bisogna smetterla con questo concetto della verità come riproduzione del reale. Le mie parole devono riflettere il reale: quale reale? questo panneggio che c’è qui davanti? La verità non è il riprodurre in negativo o in positivo un evento accaduto e riproporlo così come accaduto. La verità è qualche cosa di diverso. Se lo chiedeva Pilato: che cos’è la verità? E’ la ricerca del valore...

 

E se tra noi io sono un latitante e arriva il maresciallo e io mi nascondo. Lascia perdere che tu sei un vescovo e che io mi trovo in un luogo sacro e quindi tu mi nascondi... sono un latitante perché ho dato fuoco ad una chiesa a Giovinazzo...

 

Prima ti salvo e poi ti metterò in condizioni che le mie responsabilità con te siano rescisse al più presto (ridendo). Prima ti salvo e poi ti dico: "scappa di qua perché non ne voglio più sapere".

 

Con la precisazione che io ho incendiato da poco la chiesa e tu sei vescovo...

 

A Trieste, quando abbiamo fatto la marcia della pace a capodanno (’92), un vescovo croato cominciò a dire: "i serbi hanno bruciato 320 chiese cattoliche ...". Io ho replicato e ho detto che è una cosa grave, ma l’uccisione di un solo uomo è un delitto ancora più grande della distruzione di tutte le chiese.

 

Solo grazie a questa risposta ti libero anch'io: non ho incendiato nessuna chiesa.

Molfetta, 2 marzo 1992

Ultimo aggiornamento Lunedì 24 Aprile 2023 13:29
 
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