NUOVI IDOLI. LA LIBERTA' D'IMPRESA Stampa
Scritto da Redazione   
Giovedì 05 Maggio 2011 13:00
turbogas
dI Guglielmo Forges Davanzati *
Se quanto deliberato dal Consiglio dei Ministri verrà approvato dal Parlamento e recepito dal Capo dello Stato, l’articolo 41 della Costituzione, reciterà: “L’iniziativa e l’attività economica privata è libera ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato”. La versione attuale è di non poco diversa: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Occorre precisare che questo indirizzo di politica economica si basa su un presupposto discutibile e delinea una strategia di crescita ancor più opinabile.
Il presupposto. Se, da un lato, come messo in rilievo da un’ampia evidenza empirica, i costi e i tempi per fare impresa in Italia sono elevati rispetto alla media dei Paesi industrializzati, dall’altro, occorre considerare, come rilevato nell’ultimo Rapporto “Doing Business”, che costi e tempi per fare impresa in Italia sono aumentati nell’ultimo biennio. Cioè, sono aumentati proprio a decorrere dall’insediamento dell’attuale Governo. Con il che si può legittimamente affermare che le disposizioni per la libertà d’impresa non costituiscono un’accelerazione in questa direzione, semmai un recupero di quanto non si è fatto. E’ necessario precisare che, stando al “Doing Business”, per libertà d’impresa si intende un insieme di condizioni che rendono più facile l’avvio di una nuova attività o lo svolgimento di un’attività già in atto. Ci si riferisce, in particolare, alla facilità di registrazione della proprietà, all’accesso al credito, alle modalità per il pagamento delle imposte e la loro incidenza sul reddito prodotto, al rispetto dei contratti, all’efficienza delle norme che regolano la cessazione di un’attività e alla flessibilità del mercato del lavoro. In linea generale, si può affermare che un’ampia libertà d’impresa, concepita come minori doveri a carico dell’imprenditore, può comportare – e ha di fatto comportato – minori diritti per le controparti, e, in tal senso, non regge la tesi secondo la quale se le imprese godono di maggiore libertà ciò costituisce un beneficio collettivo. E’ significativo, in tal senso, l’uso ‘flessibile’ della forza-lavoro: si tratta, di fatto, di maggiore discrezionalità dell’impresa in contrasto con minori diritti assegnati ai propri dipendenti. Se, dunque, il presupposto sul quale reggono questi provvedimenti è discutibile, appare ancor più opinabile la prospettiva di politica economica che ne deriva. Con la massima schematizzazione, si può rilevare che la crescita economica è trainata o dai profitti (nel caso vengano reinvestiti) o dai consumi, in assenza di intervento pubblico e tralasciando le dinamiche del commercio internazionale.
La linea perseguita dal Governo fa riferimento a un’ipotesi (giacché al momento di questo trattasi) di ripresa dell’economia italiana per il tramite dell’aumento degli investimenti, a loro volta derivanti dalla maggiore numerosità delle imprese e/o dal maggiore incentivo alla produzione, per le imprese già esistenti, derivante dal minore onere burocratico. E’ evidente che un meccanismo di questo tipo può attivarsi solo a seguito di compressioni dei salari e dei costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, giacché, riducendosi i costi di produzione, gli utili delle imprese aumentano. Anche prescindendo dai costi sociali che un modello di sviluppo di questo tipo presuppone, è da rilevare che affinché il nesso profitti-investimenti possa attivarsi occorre che sussistano le seguenti condizioni. 1) L’aumento dei profitti non deve essere destinato inattività improduttive. L’attuale paradigma della ‘finanziarizzazione’ mostra, per contro, che le imprese tendono a destinare quote crescenti dei profitti per finalità diverse dagli investimenti produttivi: acquisto e vendita di titoli nei mercati azionari, ‘tesaurizzazione’, consumi ostentativi. Una indagine recente della Banca d’Italia mostra che l’incidenza delle attività finanziarie sul PIL, nel nostro Paese, è passato da circa il 7% del 2000 a circa il 9% del 2008. 2) L’aumento dei profitti deve tradursi in aumento degli investimenti in loco. Per contro, i massicci flussi di delocalizzazione industriale in atto mostrano che ciò accade di rado e, quando accade, riguarda imprese di piccole dimensioni che, da un lato, non dispongono della possibilità di realizzare all’estero la propria produzione e che, dall’altro, apportano incrementi poco significativi alla crescita del prodotto interno lordo. 
 
(Università del Salento
                                                                 
 
 
Ultimo aggiornamento Giovedì 02 Giugno 2011 19:44
 
Condividi