=LAVORO E GOVERNO MONTI. LICENZIARE PER ASSUMERE O ASSUMERE PER LICENZIARE= Stampa
Scritto da Redazione   
Giovedì 02 Febbraio 2012 13:35

per_forgesCome la politica del Governo scoraggia occupazione e innovazione. 

Imprese pigre e lavoratori scoraggiati.

Il lavoratore sostituibile

 

di Guglielmo Forges Davanzati *

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Stando alle ultime rilevazioni Eurostat, l’Italia è il primo fra i Paesi europei per numerosità di lavoratori scoraggiati, ovvero di individui che hanno smesso di cercare occupazione: circa il 3.5% della forza-lavoro si trova in questa condizione e, nella gran parte dei casi, di tratta di individui nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni.


1) L’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione.
2) I lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro. Si può osservare che questa dinamica acuisce il problema dell’assenza di mobilità sociale in Italia, in quanto rende possibile l’inattività solo a giovani la cui sussistenza è garantita dalla ricchezza accumulata dalle famiglie d’origine. In tal senso, un elevato tasso di disoccupazione, associato a inattività volontaria,  contribuisce a perpetuare le differenze di status, in un Paese -l’Italia - che, stando alle ultime rilevazioni OCSE, è, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il Paese con la minore mobilità sociale fra i Paesi principali industrializzati. 
 

A ciò si può aggiungere che la ricerca del lavoro si intensifica laddove, per un dato tasso di occupazione, è elevata la probabilità di ottenere un impiego coerente con le competenze acquisite e, dunque, considerato soddisfacente.
 

A fronte di questo scenario, il Governo sta lavorando per l’ennesima “riforma” del mercato del lavoro, in nome della “modernizzazione” delle relazioni industriali con la clausola del no-tabu. Come ha chiarito il Presidente Monti, infatti, le riforme del mercato del lavoro devono essere fatte senza alcuna preclusione di sorta, assumendo che ogni diritto possa essere negoziabile.
In merito a quanto il Governo si appresta a fare, la sola certezza della quale al momento si dispone è che si muoverà in tempi rapidi seguendo le raccomandazioni della BCE. La maggiore “flessibilità” alla quale si fa riferimento sembra passare innanzitutto attraverso l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sebbene il Ministro Fornero non si sia pronunciata, al momento, in modo definitivo sulla questione. L’articolo 18 dispone che un’impresa con un numero di dipendenti inferiore a 15 può licenziare solo per giusta causa o per giustificato motivo, motivando il licenziamento individuale con scarsa produttività e il licenziamento collettivo con l’oggettiva esistenza di esuberi. La ratio che è a fondamento di questa proposta risiede nell’idea stando alla quale è solo sapendo di poter facilmente licenziare le imprese assumono. A ciò si aggiunge che, in una fase recessiva, si rende ancora più rilevante questo intervento per scongiurare il rischio di fallimento di imprese, a ragione dei vincoli che la legislazione vigente pone alla libertà di licenziamento
Fin dal 2008, l’OCSE ha certificato che le politiche di precarizzazione del lavoro riducono la quota dei salari sul PIL, e che, nella gran parte dei Paesi industrializzati, hanno determinato riduzioni dell’occupazione. Le politiche di precarizzazione del lavoro, inoltre, incentivano le imprese a competere mediante compressione dei costi di produzione (salari e costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori in primis), disincentivando le innovazioni. Ciò a ragione del fatto che, potendo ridurre i prezzi mediante riduzioni del costo del lavoro, le imprese non hanno interesse a introdurre miglioramenti organizzativi e/o innovazioni di processo e di prodotto, soprattutto laddove l’introduzione di innovazioni richieda spese ingenti ed elevato indebitamento nei confronti del sistema bancario.
A ciò si può aggiungere che sebbene la maggiore credibilità del licenziamento derivante dalla somministrazione di contratti flessibili possa ‘disciplinare’ i lavoratori, accrescendone il rendimento, questo effetto può essere controbilanciato dalla minore motivazione che un lavoratore ha nel caso in cui percepisca come probabile il non rinnovo del contratto. Si tratta di eventualità frequenti in contesti di alta disoccupazione e di facile sostituibilità dei lavoratori (a sua volta riconducibile alla bassa dotazione di capitale umano richiesta), dal momento che - in queste condizioni - le imprese possono attingere a una platea ampia di disoccupati, disponibili ad accettare salari bassi e peggioramento delle condizioni di lavoro. In ogni caso, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende in massima misura dall’avanzamento tecnico, le politiche di precarizzazione del lavoro hanno l’ulteriore effetto negativo di comprimere il tasso di crescita.
 

E’ rilevante osservare che le politiche di precarizzazione esercitano effetti negativi anche sull’attività di ricerca del lavoro, sia perché contribuiscono a ridurre salari e occupazione, sia perché orientano la domanda di lavoro proveniente dalle imprese verso occupazioni di bassa qualità, proprio a ragione del fatto che scoraggiano modalità di competizione basate sull’introduzione di innovazioni e, dunque, sul miglioramento della qualità della domanda di lavoro. Il fatto che Confindustria abbia positivamente accolto l’accelerazione delle politiche di precarizzazione del lavoro depone male: ovviamente per i lavoratori, ma ancor più per le nostre imprese che, così facendo, dichiarano implicitamente di essere incapaci di assumersi i rischi di strategie di innovazione.

 

* Economista - Università del Salento

L'immagine è tratta dalla copertina del I vol. di "ti ricordi di piazza fontana" di Nicola Magrone, edizioni dall'interno-sudcritica, Bari 1986



Ultimo aggiornamento Giovedì 02 Febbraio 2012 16:00
 
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