=LO STATO DELL'ECONOMIA. CI VORREBBE KEYNES MA E' TROPPO DI SINISTRA= Stampa
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Venerdì 19 Dicembre 2014 21:46

grecia Il quadro macroeconomico dell’Europa
dovrebbe suggerire la ripresa di politiche economiche
poggiate sulle argomentazioni della cosiddetta sintesi postkeynesiana.
Invece, ciò è ancora molto lontano dall’essere
preso in considerazione dalle istituzioni europee.

di  Mino Magrone
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In economia ma specialmente in politica economica ormai non si discute d’altro: urge la riduzione della pressione tributaria per abbattere la spesa pubblica. Generalmente si fa a meno di chiarire che la drastica riduzione della spesa pubblica è invocata per aprire più campo d’azione all’impresa privata e ridare dignità e nuovo slancio al teorema del laissez faire.

Facendo leva su alcuni fenomeni di malcostume e basse ruberie, la spesa pubblica viene connotata come qualcosa di indistintamente improduttivo ed ostacolante il sano e competitivo sviluppo economico. Delle bassissime ruberie dei privati e del loro diffuso malcostume nella conduzione dell’impresa generalmente si tace.

E’ fatto indiscutibile che sia necessaria una forte opera di risanamento morale nella conduzione politica e amministrativa delle pubblicheDENARO istituzioni. Che si approfitti, però, del diffuso malcostume per dilatare il discorso fino al disconoscimento della funzione positiva della spesa pubblica quale fattore essenziale di correzione e rimedio delle derive del libero mercato e delle sue ormai storicamente sperimentate incapacità di raggiungere il pieno impiego e pertanto la crescita senza lunghi momenti depressivi è un altro fatto indiscutibile. E’ relativamente da poco tempo che la teoria economica riconosce l’esistenza delle crisi economiche e le studia in ogni loro aspetto. A parte la critica marxiana del capitalismo e la sua analisi delle crisi cicliche, la confutazione della legge di Say (la “legge degli sbocchi”), secondo la quale le crisi sono impossibili, è stata messa a punto, come tra poco vedremo, negli anni trenta. Seguiamo e vediamo il percorso di questa confutazione ricca ed articolata anche per disvelare le radici storiche, politiche ed economiche che come un fiume carsico hanno alimentato l’approdo alle “ economie miste” occidentali e, per l’Italia, alla nostra Carta costituzionale del 1948.

Infatti, perché le crisi fossero riconosciute e studiate nella loro reale esistenza si è dovuto patire le terribili sofferenze della grande depressione del 1929 e la lunga crisi degli anni trenta. Si è dovuto assistere al radicamento del fascismo e poi al trionfo del nazismo e del franchismo. Prima del ’29 la legge sayana dei mercati, la cosi detta legge degli sbocchi secondo la quale “l’offerta crea sempre ed in ogni caso la propria domanda”, le crisi economiche erano ritenute impossibili quanto meno nei recinti blindati dei manuali di economia più diffusi nel mondo occidentale.

Ciò è durato fino all’affermazione pratica delle tesi newdealistiche che il nuovo corso inaugurato negli anni Trenta (il New Deal rooseveltiano) promosse e praticò la fine dell’assolutismo del laissez faire e riconobbe la necessità di combattere le ricorrenti e cicliche crisi economiche.

Il nuovo corso in economia cercò ed in buona parte riuscì a ridurre la disoccupazione e a incrementare con disavanzi di bilancio consapevoli gli investimenti pubblici che il bassissimo livello della spesa privata non poteva garantire.

Prese corpo l’economia mista dello Stato di benessere fra i cui costruttori vanno menzionati Leone XIII (al secolo Gioacchino Vincenzo Pecci) e la sua Rerum Novarum, i socialisti fabiani, John Hobson e il drammaturgo George Bernard Show.

La complessa struttura delle economie miste si regge sulle idee e sulla prassi di quel nuovo corso. Quello schema di fondo costituisce l’anima della nostra stessa Carta costituzionale del 1948 che, lo si voglia o no, è un fondamentale documento che almeno dal punto di vista economico appare ideato e redatto da teste e mani della sinistra keynesiana.

Gli aderenti alla Società fabiana sono particolarmente interessanti; confluirono, dopo una singolare prassi politica, nel partito laburista; furono portatori di una cultura e di una mentalità molto moderna e fortemente diversa dalla cultura compatta e pronta alla battaglia campale della sinistra ortodossa dell’epoca. I Fabiani furono attivi nel costruire l’economia mista dello stato del benessere e furono molto presenti nelle amministrazioni locali che essi ritenevano più vicine alla loro prassi democratica della guerriglia contrapposta alla battaglia campale. Fabiani perché presero in prestito il nome dal generale romano Fabio Massimo, il temporeggiatore che sconfisse il cartaginese Annibale praticando più la guerriglia che la battaglia campale.

veblen-thorstein-imageLe selvagge rapsodie dei Fabiani in Inghilterra e le loro stonature rispetto allo spartito canonico dell’ancora fortemente dominante teoria economica ricardiana e marginalista dei neoclassici trovarono oltreoceano in America del Nord forti consonanze nelle prese di posizione di Thorstein Veblen, figlio di un emigrante norvegese, che scrisse la teoria della classe agiata. Veblen previde il fascismo fin dal 1904.

Questi fermenti culturali e di prassi democratica aprirono il campo d’azione politica e legislativa del New Deal dell’amministrazione del presidente Franklin D. Roosevelt. Ma, come è noto, la sistemazione teorica di tutte queste frammentate novità in economia trovarono compimento negli scritti che nel loro insieme sono stati definiti della “ rivoluzione keynesiana”.

In qualche modo precursori di alcuni temi poi sistemati con precisione teorica da Keynes furono anche i “libri rossi” di Foster e Catchigs. Furono, i libri rossi, una serie di pubblicazioni che resero molto popolare il concetto che i consumi dovevano essere tenuti molto alti qualora si fosse voluto che tutta la produzione fosse venduta. I libri rossi resero comprensibili a tutti l’immagine del flusso circolare della spesa.

L’opera fondamentale di J. M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936 fu preceduta nel 1930, subito dopo il crollo del mercato azionario, dal Trattato della moneta e ancor prima da Le conseguenze economiche della pace in cui si prevede la rottura degli accordi di Versailles e il disastro che ne sarebbe derivato.

Il fortino dentro il quale l’economia di indirizzo liberista è riuscita ad evitare di prendere atto dell’esistenza stessa delle fluttuazioni economiche è prefigurato in un brano di un libro di Jean Baptiste Say pubblicato nel 1803 in Francia e dal titolo di Trattato di economia politica. Il brano contiene la prima formulazione del principio poi conosciuto come la legge sayana dei mercati e degli sbocchi. Say afferma che non può mai esserci una deficienza generale di domanda o una generale eccedenza di bene prodotti. La gente, egli dice, non produce per produrre ma per scambiare i beni che produce con altri beni di cui ha bisogno. Sicché, la produzione è domanda e pertanto la produzione crea la sua propria domanda. Quanto più c’è da vendere tanto più verrà comprato. La legge di Say ha avuto una grandissima influenza sul modo di pensare della stragrande maggioranza degli economisti fino alla grande depressione degli anni trenta.

Nel 1936 fu la rivoluzione keynesiana a dare il colpo di grazia alle affermazioni del pur grande e acuto economista francese. Ma già nel 1930 nel suo trattato sulla moneta Keynes (eravamo a ridosso della grande crisi azionaria del 1929) aveva formulato le sue critiche stringenti alla legge di Say.

L’argomento di maggior forza, non soltanto teorica, sviluppato da Keynes si fondava sulla distinzione tra gli scopi dell’investimento ekeynes-main-photo del risparmio. E’ in questa non identità tra gli scopi del risparmio e dell’investimento che sta il cuore della critica keynesiana alla legge sayana degli sbocchi. Per Say gli scopi dovevano essere gli stessi, per Keynes la necessità di questa identità non sussisteva. Per cui se i risparmi superano gli investimenti l’attività economica declina; in caso contrario l’attività si espande. Per Keynes i rimedi alla crisi sono rappresentati da un “sistema monetario manovrato” e tale da garantire un’abbondante offerta di moneta e un tasso di interesse basso. Tuttavia, Keynes non riponeva tutta la sua fiducia nella manovra monetaria e dell’interesse. Egli vedeva bene che alla crisi si rimedia anche con un incremento considerevole della spesa pubblica e con un vasto programma di opere pubbliche.

E’ evidente: era la fine del laissez faire!

Giova, a questo punto, trascrivere ciò che dice Keynes nel primo paragrafo del primo capitolo della sua teoria generale: “l’obiettivo che mi prefiggo è di mettere a contrasto il carattere dei miei argomenti e delle mie conclusioni con quello dei principi classici in materia, che io sono stato abituato a rispettare e che dominano il pensiero economico, sia pratico sia teorico, delle classi governative e accademiche della mia generazione, così come hanno fatto nei cento anni passati. Dirò di più…..la teoria classica è fuorviante e disastrosa se tentiamo di applicarla ai fatti dell’esperienza”.

Il venticinquennio successivo alla seconda guerra mondiale è segnato da politiche economiche derivate da argomentazioni di questo tipo: il pieno impiego è possibile se il governo attua una politica fiscale e monetaria tale che se il settore privato dà segni di crisi è necessario provvedere ad una offerta di moneta più abbondante e ad una spesa pubblica più robusta. La “domanda aggregata” può essere mantenuta al livello del pieno impiego della spesa dei consumatori e degli investimenti pubblici che si rendono via via necessari.

Questa sintesi keynesiana e postkeynesiana ha retto fino alla fine degli anni Sessanta e ha garantito già dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale notevoli saggi di sviluppo delle economie occidentali. Per molti paesi europei la crescita ha assunto le caratteristiche del “miracolo economico”, come, per esempio, è avvenuto per l’Italia.

Ma la parte finale degli anni Sessanta mostra anche una ripresa dell’inflazione considerata la più grave dalla fine della guerra. I saggi di inflazione molto alta (4 - 6 per cento all’anno) nel giro di un quindicennio avrebbero potuto dimezzare il potere d’acquisto. Nel 1973, inoltre, l’Europa fu colpita dalla crisi petrolifera per cui il timore di cadere nel cosiddetto “vuoto inflazionistico” e la voglia di rivincita sulle politiche economiche di derivazione keynesiana, inaugurarono le politiche economiche del “rigore” nel tentativo di sconfiggere l’inflazione con la riduzione della domanda, la stretta creditizia e la leva fiscale (all’inizio degli anni Settanta furono introdotti in Italia i tributi dell’Iva e dell’Irpef e dell’Irpeg).

L’operazione “rigorista” però non ebbe successo perché l’economia reale mostrava una nuova faccia prima mai vista dai governi e dagli economisti. La situazione singolare fu chiamata di stagflazione, parola sgradevole non meno della realtà da descrivere. Le politiche del rigore non avevano ridotto l’inflazione ma avevano causato una sorta di stagnazione dell’economia reale.

Situazione singolare di combinazione di inflazione e stagnazione che mise in grave difficoltà sia le politiche del rigore sia quelle di natura keynesiana.

van goghInfatti, se da un verso la stagnazione consigliava di interrompere le politiche del rigore dall’altro verso esse sconsigliavano, per il persistere dell’inflazione, l’aumento dell’offerta di moneta, la larghezza del credito e l’aumento della spesa pubblica.

Una situazione del genere agevolò il ritorno del dissenso liberista rispetto alla economia mista, all’intervento dello Stato e alla sua spesa pubblica.

A Milton Friedman e alla sua scuola di Chicago fu dato l’appellativo di monetaristi.

Friedman professò con energia la sua contrarietà alla moneta facile e si batté per un regolare e graduale rifornimento di moneta da parte delle autorità monetarie fissando annualmente una percentuale a sostegno della crescita economica. Auspicò la riduzione della spesa pubblica e un generale ritiro dello stato dagli affari economici il cui equilibrio era riaffidato alla rinnovata fiducia nel laissez faire.

Oggi il mondo occidentale sta vivendo una nuova crisi economica prolungata (è iniziata negli Usa nel 2007 - 2008) e violenta. Tra le conseguenze negative della crisi va ricordata la messa in discussione da parte di milioni di cittadini europei della stessa validità ed esistenza della Unione europea.

Diverse e forse contrapposte sono le politiche monetarie seguite dalle banche centrali. La Federal reserve (Usa) per combattere la depressione economica ha largheggiato sull’incremento della moneta circolante; così ha fatto la Banca centrale giapponese. Titubante è apparsa, fino ad oggi, la politica della Bce. Politica incerta perché divisa è l’Europa tra i paesi del rigore e quelli della flessibilità. In questi giorni però gli Usa sono in netta ripresa economica (il Pil aumenta al ritmo di oltre il 2,5% all’anno) mentre l’Europa soffre ancora fortemente il “ ristagno” in alcuni dei suoi paesi e la recessione in molti altri come avviene in Italia.

Tuttavia questa crisi appare più leggibile quanto meno rispetto alla coerenza nei movimenti delle più significative grandezze economiche. Per esempio, accanto alla stagnazione non è contestualmente presente l’inflazione. L’Europa è, infatti, coerentemente con la crisi della produzione, dei consumi e dell’occupazione, in deflazione. Insomma, quello che fu definito come singolare fenomeno degli anni settanta, la stagflazione, è scomparsa.

Il quadro macroeconomico dell’Europa dovrebbe suggerire la ripresa di politiche economiche poggiate sulle argomentazioni della cosiddetta sintesi postkeynesiana. Invece, ciò è ancora molto lontano dall’essere preso in considerazione dalle istituzioni europee.

Se l’inflazione è stata una dei punti deboli della predetta sintesi, oggi il pericolo è dato dalla deflazione.

La contrazione della spesa pubblica (tagli consistenti alla spesa), la rigidità della moneta hanno provocato una preoccupante diminuzione della “ domanda aggregata” e un aumento drammatico della disoccupazione. Il fattore essenziale della crescita è il livello della domanda aggregata la quale deve essere mantenuta all’altezza del pieno impiego dalla spesa del consumatore e dagli investimenti col concorso decisivo della spesa pubblica.

L’Italia si allontana ancora di più dalla ripresa economica perché, stravolgendo ancora una volta la Carta costituzionale del 1948, hamasada inserito in Costituzione il “pareggio di bilancio”.

I nostri governi e il nostro Parlamento così decidendo hanno almeno nella parte economica, disconosciuto, ammesso che lo abbiano mai riconosciuto, l’origine e la fonte di sinistra keynesiana della nostra Costituzione. Ciò lega le mani alle future decisioni in politica economica così come sono per l’Italia una camicia di forza il patto di stabilità (coerente col pareggio di bilancio) e il tremendo ed asfissiante fiscal compact.

I fautori del cosiddetto rigore hanno in mente un proposito punitivo rispetto ai popoli che secondo loro hanno vissuto al di là delle proprie limitate capacità. Hanno, cioè, consumato di più rispetto a quanto hanno prodotto. E’ questa l’accusa. Hanno vissuto sul debito che ora si mette in dubbio che possano onorare.

Devono, perciò, i popoli pigs, arretrare: i loro redditi pro-capite devono scendere ai livelli di oltre cinquant’anni fa.

Coloro che vogliono l’Europa a “due velocità” non sono quelli che, pur sbagliando, lo dicono apertamente. Sono, invece, quelli dei trattati europei capestro, quelli che sotto le sembianze di difensori dell’integrità europea ne spingono una parte significativa per cultura e produzione ai margini della contemporaneità.

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Ultimo aggiornamento Sabato 20 Dicembre 2014 07:32
 
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