L'ITALIA E GLI EBREI: UN PAESE SEMPRE 'IN BUONA FEDE' Stampa
Scritto da Redazione   
Mercoledì 27 Gennaio 2021 18:49

 

27 GENNAIO 2021.

L’ITALIA E GLI EBREI:

UN PAESE SEMPRE “IN BUONA FEDE”

codice breve copertina

‘per non dimenticare’. […] ‘per non dimenticare’ che cosa esattamente? Un pezzo di storia concluso e senza esiti? Un dato d’archivio?

 

[…] si vada alle ‘leggi’ dello Stato autoritario e del razzismo fascista e poi delle ‘benevoli riparazioni’: un cammino francamente ossessionante, scandito da articoli, commi, paragrafi, decreti, regolamenti, circolari. Nulla fu tralasciato perché si smarrisse - prima - la percezione stessa dell’’oggetto’ di tanta legislazione: persone.
E perché non si disturbasse più di tanto -
dopo - un popolo “in buona fede”: noi.

(Nicola Magrone, Codice Breve)

 

In Italia, perseguitati, umiliati, privati dei diritti, gli ebrei italiani furono perseguitati dal regime fascista anche economicamente: i loro beni furono rubati, saccheggiati, confiscati, sequestrati. Ed è su questo aspetto che si scrive un’altra della pagine buie della storia d’Italia.

Lo sottolinea, tra gli altri, il prof. Guido Alpa in una Relazione tenuta nel 2019 in occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino. “La persecuzione degli Ebrei in Italia - rileva - […] prosegue senza ritegno e nell’indifferenza generale quando si pone il problema delle restituzioni, restituzioni intese in senso lato, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro e nelle funzioni nella pubblica Amministrazione, nella Magistratura, nella scuola e nell’ Università, la ripresa dell’attività economica negli esercizi commerciali, nelle professioni, nelle imprese, la restituzione delle proprietà, in particolare dell’abitazione, degli arredi, dei beni di pregio, dei depositi bancari, del prodotti finanziari e assicurativi”.

Per questo, e per evitare la facile retorica cui spesso s’indulge a proposito dell’Olocausto, proprio a questo tema, non a caso facilmente dimenticato nelle questioni che riguardano le leggi razziali del fascismo in Italia, vogliamo dedicare quest’anno il ‘Giorno della Memoria’ della rivista Sudcritica. Lo facciamo pubblicando qui un ampio capitolo del volume di Nicola Magrone Codice breve del Razzismo Fascista – La “questione razziale, pubblicato dalle edizioni dall’interno-Sudcritica nel 2004. Il capitolo s’intitola “Il ‘Terzo in buona fede’ e le riparazioni”.

Si articola così:requisizione beni

-                    1. La “reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica’. Le origini di una storia inifnita.

-                    2. La “reintegrazione dei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica”.

-                   3. L’interminabile processo di reintegrazione dei perseguitati razziali.

-                    4. La riparazione nelle aule di giustizia.

Sulla questione dei risarcimenti alle persone che furono private di dignità e di beni, e molte anche della vita, c’è ancora oggi molto da dire.

Non lo faremo qui, luogo nel quale ci limiteremo a sottolineare qualche punto.

1) Soltanto nel 2001, a circa sessant’anni dalla Liberazione d’Italia e dopo tre anni di lavoro, la Commissione Anselmi (istituita nel 1998 con il compito di “ricostruire le vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati”) riuscì a quantificare, solo in linea approssimativa, il valore dei beni che 'in nome della legge’ erano stati sottratti: case e terreni, conti bancari, titoli azionari, gioielli, opere d'arte e di antiquariato, ma anche comuni oggetti del vivere quotidiano come spazzolini da denti, barattoli di marmellata, posateria e pentolame. La Commissione era riuscita a rintracciare almeno 8.000 decreti di confisca che descrivono una ruberia operata dallo Stato dalle dimensioni impressionanti: il valore degli immobili requisiti (e trasferiti all'Ente Gestione e Liquidazione Immobili-EGELI) nel 1939 fu di oltre 55 milioni di lire dell'epoca (oltre 40 miliardi di euro ai valori attuali). E poi sequestri di depositi bancari e contanti per 75 milioni di lire dell'epoca (50 miliardi di oggi); di titoli di stato per 36 milioni; di azioni per 730 milioni; di terreni e fabbricati per il valore di 1 miliardo di lire all’epoca; oltre a furti e saccheggi che – scrive la commissione – “non sono quantificabili, ma sicuramente di dimensioni vaste, poiché praticamente tutti gli ebrei furono costretti ad abbandonare le loro case”.

 

leggirazziali 12) In tanti e tanti anni è mancato - rileva Magrone nel suo saggio - un tentativo di risposta alla domanda “giuridica”: tutti “terzi in buona fede” gli italiani ariani che, estranei e distratti, occuparono però le case e le aziende degli ebrei? Manca una ricognizione non delle “spoliazioni” ma degli arricchimenti.

 

3) La storia della giurisprudenza – come sottolinea anche Magrone, tra gli altri che si sono occupati di queste vicende - riflette il ruolo della magistratura sotto il Fascismo. Tuttavia, anche sulla questione delle restituzioni, l’ampia giurisprudenza che ne è scaturita si è risolta, nella maggioranza dei casi, in danno dei perseguitati. Alpa, al riguardo, rileva: “In altri termini, siamo in presenza del diritto, come legittimazione del male, nella prima fase, e del diritto come legittimazione dell’umiliazione, nella seconda fase”.

 

4) Solo il 30 dicembre 2020, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della nuova legge di bilancio, si è data soluzione a questioni assai spinose riguardanti la possibilità di ottenere risarcimenti e si sono “finalmente superate – scrive Noemi Di Segni, Presidente UCEI (https://moked.it/blog/2021/01/03/perseguitati-razziali-la-svolta-del-governo-non-piu-necessario-lonore-della-prova/) profonde aberrazioni presenti nella legge 10 marzo 1955, n. 96 (“legge Terracini”), recante “Provvidenze a favore dei perseguitati politici o razziali e dei loro familiari superstiti” – cosiddette Benemerenze – con riguardo alla persecuzione razziale e nello specifico delle persone di religione ebraica”.

Tra queste aberrazioni, quella dell’ “onere della prova”. “Fino a ieri qualsiasi richiedente - spiega la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia - doveva produrre la prova dell’atto persecutorio: dimostrare quindi di aver sofferto e di aver subito atti di violenza e sevizie, con documenti originali o testimoni. Al di là della difficoltà oggettiva di fornire tali prove e al di là della valutazione estremamente variabile di cosa si intende per atto persecutorio vi era una umiliante decisione di ammissibilità soggettivizzata. Dopo l’onta e le esclusioni da ogni ambito della vita dovuta alle leggi razziste, dopo la persecuzione fisica e la deportazione, gli ebrei dovevano ancora dimostrare la ‘corretta’ applicazione di tale persecuzione nei loro riguardi, e questo dopo la formale abolizione delle leggi antiebraiche, dopo la Costituzione del 1947. Con la nuova disposizione si chiarisce che gli atti di violenza o le sevizie subite in Italia o all’estero si presumono fino a prova contraria”.

Accade dunque che solo nel 2021 un ebreo possa finalmente dire in Italia di essere stato perseguitato senza dover essere costretto ad addurre una prova o un testimone. Dall’avvio delle persecuzioni razziali sono passati più di 80 anni. [clara zagaria]

 

 

Dal volume Codice Breve del Razzismo Fascista, di Nicola Magrone:

PARTE QUARTA. IL ‘TERZO IN BUONA FEDE’ E LE RIPARAZIONI”

1.

La “reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica”.

Le origini di una storia infinita.

Il 20 gennaio 1944 - l’Italia è da poco piú di tre mesi in guerra dichiarata contro la Germania e Mussolini è a capo della Repubblica sociale di Salò alleata con la Germania - il Regio decreto-legge n. 25 (Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica) avvia il processo di reintegrazione degli ebrei che si trascinerà fino alle viste dei nostri giorni. Il problema del razzismo in senso lato attraverserà addirittura i nostri stessi giorni sol che si pensi che sarà del 29 giugno 2000 la direttiva 2000/43 della Comunità europea “sull’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica” e del 9 luglio 2003 il decreto legislativo n. 215 dello Stato italiano (Adozione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica). Sessant’anni di discussione infinita per approdare ad improvvisate formulazioni di norme e ad affermazioni di principio che riportano d’un tratto tutti indietro (“le razze esistono”, disse il manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938) e che tutti “consolano” perché si spingono con slancio umanitario a sancire che le “razze che esistono” non possono giustificare “diversità di trattamento”.

[…] Si tratta di contraddizioni e di “timidezze riparatorie” che si trascinano dal ’44.

L’articolo 1, dunque, del Regio decreto-legge n. 25 (Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica) del 20 gennaio 1944 detta, dunque, una serie di abrogazioni:

“Sono abrogati i seguenti regi decreti-legge e le seguenti leggi:

regio decreto-legge 7 settembre 1938 n. 1381, contenente provvedimenti nei confronti di ebrei stranieri;

regio decreto-legge 5 settembre 1938, n. 1390, contenente provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista;

regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1779, relativo alla integrazione ed al coordinamento in testo unico delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana;

legge 13 luglio 1939, n. 1024, contenente norme integrative del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, sulla difesa della razza italiana;

legge 29 giugno 1939, n. 104, contenente la disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica;

legge 13 luglio 1939, n. 105, contenente disposizioni in materia testamentaria, nonché sulla disciplina dei cognomi nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica;

legge 19 aprile 1942, n. 517, riguardante la esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo;

legge 9 ottobre 1942, n. 1420, riguardante le limitazioni di capacità degli appartenenti alla razza ebraica residenti in Libia;

artt. 1, terzo comma, 91, 155, secondo comma, 295, 342, 348, ultimo comma, 404, ultimo comma, codice civile”.

Non basta: piú compiutamente e “risolutivamente”, lo stesso articolo dispone - si può ben dire: in generale -:

“Sono altresí abrogate tutte quelle disposizioni che, per qualsiasi atto o rapporto, richiedono accertamento o menzione di razza, nonché ogni altra disposizione o norma, emanata sotto qualsiasi forma, che sia di carattere razziale o comunque contraria al presente decreto o con esso incompatibile”;

e ancora:

“I cittadini italiani che l’articolo 8 del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, dichiarava essere di razza ebraica o considerati di razza ebraica, sono reintegrati nel pieno godimento dei diritti civili e politici eguali a quelli di tutti gli altri cittadini dei quali hanno eguali doveri”.

Affermazioni - come si vede - assolutamente chiare e lineari: una svolta radicale, il capovolgimento insomma dell’intera “costruzione” fascista dello Stato razziale, confermato non solo dall’art. 2 dello stesso decreto-legge:

“Sono nulli di pieno diritto i provvedimenti di revoca di cittadinanza emanati in dipendenza dell’art. 3 del regio decreto-legge 7 settembre 1938, n. 1381, e 23 del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728.

Coloro ai quali sia stata revocata la concessione della cittadinanza in dipendenza delle disposizioni di cui al comma precedente, la riacquisteranno di diritto”.

ma anche e soprattutto dall’art. 3, che introduce nell’ordinamento giuridico un’inedita “categoria” dalle connotazioni squisitamente politiche e morali:

“Le annotazioni di carattere razziale iscritte nei registri dello stato civile ed in quelli della popolazione sono da considerarsi inesistenti. Nel rilascio di estratti o di copie di atti dello stato civile o di certificati anagrafici, tali annotazioni non dovranno mai essere riprodotte, salvo che per espressa richiesta della Autorità giudiziaria o in seguito a specifica autorizzazione del Procuratore del Re su domanda dell’interessato”.

[]

Dove, la “sanzione” dell’“inesistenza” piú che un concetto giuridico esprime e sottolinea una determinazione politica e morale: nulla, della politica razziale del fascismo, deve in qualunque modo e in qualunque misura sopravvivere al fascismo.

Con l’art. 4 del decreto-legge,

“tutti coloro che furono dispensati dal servizio in applicazione del regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779, del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, o di qualsiasi altra disposizione o norma di carattere razziale emanata sotto qualsiasi forma, sono riammessi in servizio”.

L’apparente genericità delle espressioni “qualsiasi altra disposizione o norma di carattere razziale emanata sotto qualsiasi forma” è evidentemente voluta: si è ripetutamente sottolineato, nel corso di questo lavoro, che la “legislazione razziale fascista” non fu fatta solo di leggi; e che, anzi, la parte piú odiosa di essa stette nei decreti, nelle circolari, nei meri atti amministrativi, addirittura in “fatti concludenti”; onde, la difficoltà anche nell’Italia repubblicana di una ricognizione rigorosa degli “atti” concreti di discriminazione razziale. Le apparenti genericità del testo, dunque, avrebbero potuto e dovuto spianare la strada per un intervento riparatore di amplissimo respiro; cosa che non del tutto sarebbe accaduta, specialmente nelle aule di giustizia.

“[…] la riammissione in servizio avverrà di ufficio entro un anno dall’entrata in vigore del presente decreto, per coloro che appartenevano alle Amministrazioni dello Stato e degli Enti locali.

La riammissione avverrà invece a domanda dell’interessato per i dipendenti delle altre Amministrazioni”.

Non è facile cogliere immediatamente la ragione della differenziazione “riammissione in servizio d’ufficio/riammissione in servizio a domanda”; è possibile che si sia trattato di una raffinatissima sensibilità per le personali “scelte” del singolo, posto che, in verità, una cosa è ”rientrare” in un ufficio dello Stato, dunque di tutti, altra rimetter piede lí dove si erano consumate le brutalità discriminatorie peggiori perché concretamente interpersonali, lí comunque dove il persistere di atteggiamenti ostili avrebbe potuto trovare mille rinnovati canali per riproporsi, come di fatto si ripropose; ma è un’ipotesi.

Una positiva estenuazione dell’inedita categoria dell’“inesi­stenza” di norme precedenti sta nell’art. 5 del decreto, dove la discriminazione dichiarata per legge come “non esistita” ambi­sce a rimuovere pezzi tragici di storia e di vite individuali, come a dire, sulle ali di uno slancio del tutto volontaristico e oggettivamente politico: ricominci, la vita stessa, da dove si spezzò:

“Agli effetti dei limiti di età fissata o da fissarsi in bandi di concorso di ogni genere, per i concorrenti già colpiti dalle leggi razziali, non viene computato il lasso di tempo intercorso tra il 5 settembre 1938 e sei mesi dopo l’entrata in vigore del presente decreto”.

E’, in ogni caso, del tutto evidente che si tratta di “finzioni giuridiche”, per quanto eticamente sostenute, che possono restituire “forme di vita” non la vita.

Ai “titoli di studio” è dedicato l’art. 6 del decreto-legge:

“Agli effetti del conseguimento di titoli di studio in scuole italiane di ogni grado, su richiesta degli interessati e con provvedimento del Ministro per l’educazione nazionale, gli esami superati in scuole estere dopo il 5 settembre 1938 e fino a sei mesi dopo la conclusione della pace, da cittadini italiani già colpiti dalle leggi razziali, verranno considerati validi per le materie che il Ministro per l’educazione nazionale stabilirà a suo insindacabile giudizio.

Il richiedente verrà ammesso a sostenere, per altre materie, esami complementari nelle scuole italiane.

Ove esistano limiti di età non verrà computato il lasso di tempo intercorso fra il 5 settembre 1938 e sei mesi dopo l’entrata in vigore del presente decreto”.

L’“insindacabilità” del “giudizio” del Ministro evoca sinistramente l’appena “abrogata” legislazione razziale. Quanto ai “limiti di età”, si tratta di un ulteriore applicazione della categoria della “inesistenza”

Essendo stata la legislazione razziale “assistita” da una serie infinita di sanzioni penali, l’art. 7 del decreto-legge dichiara - appunto, per legge - estinti i procedimenti penali che ne erano seguiti:

“Tutti i procedimenti penali in corso per violazioni delle leggi razziali sono estinti”.

Si ricorderà che il “diritto razziale penale coloniale” aveva previsto specifiche aggravanti se non vere e proprie nuove fattispecie penali relativamente a condotte di “italiani ariani” nei confronti degli “indigeni” delle colonie; anche questi fatti e questi reati, dunque, cadono sotto la sanzione dell’estinzione. Il che, se apparentemente non sembra in linea con la svolta antirazziale, concretamente lo è: perché quei fatti e quei reati erano stati sanzionati penalmente a tutela non dell’indigeno ma dell’ariano il quale con il suo comportamento aveva offeso non l’indigeno ma il prestigio e la superiorità stessa dell’ariano, ridottosi a “mettersi alla pari” con un suo “inferiore”

Quanto alle condanne già inflitte:

“Le condanne già pronunciate con sentenza passata in giudicato, relative alle suddette violazioni, perdono ogni efficacia giuridica.

Le schede riguardanti tali condanne non debbono essere compilate; quelle già compilate debbono essere eliminate dal casellario giudiziario nel termine di un mese dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Il regio decreto-legge 20 gennaio 1944 n. 25 è, dunque, sostanzialmente il primo atto formale con il quale, caduto il fascismo, ai “cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica” vengono “restituiti” diritti civili e diritti politici. Un percorso non semplice e non sempre lineare; soprattutto, un fervore, di lí in poi, di iniziative politiche e legislative, fino a lambire i nostri giorni.

Piú sofferta e “resistita”, la “reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica”.

 

2.

La “reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri

già dichiarati o considerati di razza ebraica”.

Alla stessa data del 20 gennaio 1944, è bell’e pronto il regio-de­cre­to legge n. 26 “contenente disposizioni per la reinte­grazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica”.

Il quale ha una singolare particolarità: al suo art. 21, esso recita:

“[Il presente decreto] entra in vigore il giorno in cui saranno dichiarate cessate le ostilità con la Germania”.

La singolare puntualizzazione impone la contestualizzazione della norma.

In sintesi:

9 luglio 1943: sbarco alleato in Sicilia; 25 luglio 1943: “sfiducia” del Gran Consiglio a Mussolini, arresto del duce; governo Badoglio; 28 luglio 1943: il governo Badoglio scioglie il partito fascista; 17 agosto 1943: gli alleati entrano in Messina, La Sicilia è liberata; 3 settembre 1943: gli alleati sbarcano in Calabria. L’Italia firma l’armistizio, che non viene reso noto; 8 settembre 1943: viene reso noto l’armistizio; fuga del re; occupazione tedesca del Nord e del Centro dell’Italia; 12 settembre: Mussolini è liberato dai tedeschi e ripara in Germania; 15-17 settembre 1943: Mussolini fonda il Partito fascista repubblicano; 23 settembre 1943: Mussolini, rientrato in Italia, fonda la Repubblica sociale italiana, con sede a Salò; nel governo, i personaggi piú torbidi e violenti del regime sconfitto, ministro dell’interno quel Buffarini-Guidi che aveva fatto mercato lucrosissimo delle “discriminazioni” e delle “arianizzazioni” degli ebrei; 27 settembre 1943: sollevazione popolare a Napoli; settembre-ottobre 1943: viene costituito il Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccnl) con sedi regionali; 13 ottobre 1943: il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania; novembre 1943: si costituiscono le prime Brigate partigiane; 8-11 gennaio 1944: Ciano ed i gerarchi firmatari dell’ordine del giorno di sfiducia a Mussolini sono processati, condannati e fucilati a Verona.

I due decreti di reintegrazione nei diritti civili e politici e nei diritti patrimoniali (nn. 25 e 26) sono, entrambi, del 20 gennaio 1944, nel mezzo - dunque - dell’agonia incarognita del fascismo, del dissolvimento opportunistico della monarchia, dei tumulti sociali, dell’incrudelimento estremo del nazismo ormai “in guerra” con l’Italia di Badoglio ed “alleato” con la Repubblica sociale di Salò, l’Italia divisa in due, il popolo italiano – specie al Centro e al Nord, naturalmente - attanagliato dal drammatico e nemmeno sempre e solo ideale dilemma fascismo/monarchia, gran parte disperso e impotente.

La “spiegazione” piú ragionevole della singolare previsione dell’art. 21 del regio decreto n. 26 del 20 gennaio 1944 (entrata in vigore “il giorno in cui saranno dichiarate cessate le ostilità con la Germania”) stette, dunque, proprio in una scelta per cosí dire sperimentale del governo Badoglio: di assecondare le aspettative piú diffuse e piú immediate tra ebrei e antifascisti, “reintegrando”, e subito, gli ebrei nei diritti civili e politici in quel che sopravviveva dell’Italia monarchica (senza trascurare l’obbligo preciso e formale assunto dal governo in sede di armistizio con gli alleati di abrogare la legislazione razziale); di scongiurare tuttavia l’incrudelimento tedesco nell’Italia occupata dai nazisti, agli occhi dei quali evidentemente si ritenne che la reintegrazione immediata degli ebrei anche nei loro “diritti patrimoniali” sarebbe apparsa come l’ultima delle provocazioni, “meritevole” di proporzionate rappresaglie in danno di ebrei e di prigionieri di guerra.

E’ una “spiegazione” ragionevole anche in considerazione della contestuale feroce politica razzista formalizzata e praticata nella Repubblica Sociale di Salò, protrattasi nel ’43 e fino alla fine del ’44 a pochi passi dalla catastrofe del 25 aprile del ’45.

Tutto ciò, tuttavia, non toglie, ed anzi conferma, la particola­ris­sima spigolosità delle questioni patrimoniali dentro alla piú ampia “questione ebraica”.

Non a caso, l’intero processo di reintegrazione degli ebrei incontrerà, nell’Italia repubblicana, le piú opache e spesso riottose resistenze e un malcelato ostruzionismo soprattutto dentro alle amministrazioni e dentro alle aule di giustizia.

Dove si riveleranno in gran parte tanto agevoli, via via piú agevoli, le affermazioni di principio quanto stizzite e formali­stiche, sostanzial­mente diffidenti, le prassi amministrative e giudiziarie. Tutto - questioni di ordinaria “interpretazione” a parte - ruoterà intorno al “problema giuridico” della “buona fede” dei “nuovi proprietari”.

Si spiegherà cosí la diffusa scelta degli ebrei di rinunciare ad ogni azione legale, pena l’attesa umiliante di una decisione e l’acuirsi di un sentimento orgoglioso e impaurito insieme di identificazione, questa volta, con un grappolo di postulanti ebrei, postulanti perché ebrei.

Il regio-decreto legge n. 26, dunque, del 20 gennaio 1944.

Ne dispone la pubblicazione e l’entrata in vigore il Decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944 n. 252 il quale, al suo articolo 1, impone che il decreto 26 entri in vigore “il giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale”, che viene contestualmente ordinata.

Ne deriva:

“Resta pertanto abrogato il termine di entrata in vigore stabilito nell’art. 21, primo comma, del regio decreto-legge predetto”

(si ricorderà: “il giorno in cui saranno dichiarate cessate le ostilità con la Germania”).

Alla data del 5 ottobre 1944 le “ostilità con la Germania” non sono affatto “cessate”: Mussolini verrà fucilato il 25 aprile del ‘45; Hitler si suiciderà il 30 aprile; Berlino capitolerà definitivamente l’8 maggio del ’45.

E tuttavia, il regio-decreto n. 26 del 20 gennaio ’44 viene posto in esecuzione, questa volta “in anticipo”.

L’attendismo del governo Badoglio, da piú parti segnalato se non denunciato, in particolare dall’Unione delle comunità israeli­tiche ebraiche e finanche dalla Commissione alleata, è risolto dal governo Bonomi, appunto, il 5 ottobre:

“Restavano però aperti innumerevoli problemi, che concernevano l’emana­zio­ne di norme integrative e complementari, il risanamento di situazioni parti­colari e soprattutto l’effettiva attuazione delle nuove disposizioni. Essi avreb­bero occupato grande spazio negli anni successivi e si sarebbero evoluti in sintonia con le piú ampie trasformazioni politiche della società italiana”;

ma soprattutto, e specie nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo e alla fine della guerra, il problema ebraico si sarebbe incrociato con quello di masse di sbandati e di diseredati:

“[…] il reinserimento morale e sociale degli ebrei nel tessuto del paese imponeva uno sforzo particolare nel piú vasto ambito della ricostruzione politica, materiale e morale dell’Italia. […] Accanto agli ebrei, centinaia di migliaia di persone, reduci, ex partigiani, ex deportati che aspiravano a un reinserimento nella società e nella vita attiva trovavano di fronte a sé distruzioni, povertà e gravi carenze assistenziali da parte dello Stato. […] Erano problemi che investivano larghi strati della popolazione italiana, ma non mancavano di acuire i disagi e le frustrazioni di quei non numerosi ebrei che, sopravvissuti alle persecuzioni e alle deportazioni, avvertivano ora l’indifferenza e il distacco delle istituzioni”.

L’incipit della reintegrazione degli ebrei fu, dunque, incorag­giante pur nelle sue incertezze e nelle sue prudenze. Il problema del razzismo, della violenza indiscriminata e torturante, sta anche però, a volte con non minore spietatezza, nel dopo.

Il regio-decreto legge n. 26 del 20 gennaio 1944, entrato in vigo­re piú tardi di quello n. 25 sui “diritti civili e politici” ma prima della “data” prevista (“il giorno in cui saranno dichiarate cessate le ostilità con la Germania”) ripercorre in qualche modo la legislazione razziale fascista ed è costretto a mutuarne la punti­gliosità propria di un atto notarile o addirittura di un regolamento condominiale.

Intanto, viene disposta (articolo 1) l’ “abrogazione” dei seguenti decreti-legge e delle seguenti leggi:

“regio decreto-legge 9 febbraio 1939, n. 1728, contenente provvedimenti per la difesa della razza italiana;

regio decreto-legge 9 febbraio 1939, n.126, contenente norme di attuazione e di integrazione delle disposizioni di cui all’articolo 10 del regio decreto-legge 17 novembre 1938 relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica;

legge 13 luglio 1939, n. 1024, contenente norme integrative del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, sulla difesa della razza italiana;

legge 9 ottobre 1942, n. 1420, riguardante le limitazioni di capacità degli appartenenti alla razza ebraica residenti in Libia;

articolo 1 terzo comma del codice civile”.

L’articolo 1 - analogamente all’art. 1 del regio decreto-legge n. 25 sui “diritti civili e politici” - contiene un’affermazione piú generale e di principio:

 

“Sono altresí abrogate tutte quelle disposizioni che, per qualsiasi atto o rapporto, richiedono accertamento o menzione di razza, nonché ogni altra disposizione o norma emanata sotto qualsiasi forma ed avente effetti patrimoniali, che sia di carattere razziale o comunque contraria al presente decreto o con esso incompatibile.

I cittadini italiani che l’articolo 8 del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, dichiarava essere di razza ebraica o considerati di razza ebraica sono reintegrati nel pieno godimento dei diritti patrimoniali, eguali a quelli di tutti gli altri cittadini, coi quali hanno eguali doveri”.

La norma, apparentemente ridondante, fa invece i conti con la molteplicità delle fonti del diritto razziale fascista.

Che fine fa l’Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare) che il fascismo aveva istituto nel 1939 per gestire i patrimoni tolti agli ebrei?

“[…] viene mantenuto in vita, per i compiti che il presente decreto-legge gli affida e per quanto altro gli compete a norma delle altre leggi in vigore” (con le modifiche statutarie “che saranno ritenute necessarie”) [art. 2 del decreto legislativo]

Che cosa deve fare l’“ebreo” o il “considerato ebreo” per riavere i beni toltigli dal regime e trasferiti all’Egeli?

 

“Entro un anno dalla conclusione della pace”, deve “chiedere la retrocessione” a suo favore “di tutti ovvero parte degli immobili trasferiti”; “naturalmente”, egli deve “restituire” allo Stato “gli speciali certificati trentennali o gli speciali titoli obbli­ga­zionari emessi dall’Ente di gestione e liquidazione immo­biliare in pagamento del prezzo di detti immobili” (con la precisazione che, “alla data del 31 dicembre 1945, le proprietà immobiliari già assegnate all’Egeli erano in numero di 170, per un costo di espropriazione di £. 55.454.680,44”).

Potrà essersi verificato che il bene immobile a suo tempo trasferito dall’“ebreo” all’Ente di gestione” fosse gravato di un diritto di usufrutto e che l’Ente avesse estinto tale diritto a mezzo del “pagamento di una somma in contanti”. Se questo caso si darà, l’“ebreo” dovrà rimborsare l’Ente della somma pagata per l’estinzione del diritto di usufrutto che cosí resterà “irre­vocabile a tutti gli effetti di legge” (art. 3 del decreto legislativo).

Potrà essersi verificato che, al momento della spoliazione, l’“ebreo” abbia ricevuto dall’Ente una qualche somma “in con­tanti”. Al momento della “retrocessione del bene”, egli dovrà “integralmente restituirla” (art. 4 del decreto).

“Naturalmente”, l’impianto del decreto è di natura propriamente civilistica: insomma, esso tratta “le parti”, Egeli e “ebreo”, paradossalmente “alla pari”, si direbbe: finalmente; trascurando, tuttavia, che “le parti pari non sono”: l’Ente è reduce da anni di arricchimenti e di usurpazioni patrimoniali, l’ “ebreo” da anni di tormenti e di spoliazioni. Onde, si verificherà agevolmente il caso di un “ebreo” che non potrà “restituire” alcun certificato, alcun titolo, alcuna “somma in contanti”. L’idea stessa di un qualche meccanismo risarcitorio è del tutto estranea alla filosofia del decreto.

Una “filosofia” che ispira in misura vistosissima anche l’art. 6 del decreto legislativo del ’44. Vi si prevede il caso del tutto ragionevolmente realistico di un bene “passato d’autorità” dall’ “ebreo” all’Ente di gestione e da quest’ultimo ad altro soggetto, naturalmente “ariano”. In questo caso, “anche i terzi sono tenuti al rilascio di detti beni a vantaggio degli antichi proprietari e dei loro aventi causa che ne facciano domanda”. L’Ente di ge­stione restituirà a costoro “il prezzo da esso riscosso” a suo tempo (nessun problema per l’Ente il quale si vedrà a sua volta rim­bor­sato dall’ “ebreo” della somma, dei titoli o dei certificati “a suo tempo corrispostigli per la spoliazione del bene”). Una catena di restituzioni e di rimborsi “a ritroso”. Ma il decreto legislativo si spinge oltre, evidentemente preoccupato della “sorte” dell’ “ariano”, acquirente finale; e ragiona: se il bene dell’ “ebreo”, passato all’Ente per il prezzo x, è stato venduto dall’En­te al prezzo maggiore y ad un “ariano” che a sua volta l’ha venduto ad un suo “pari razza” al prezzo ancora maggiore di z, e cosí via, il povero “ariano” ultimo acquirente si troverà ad aver speso per lo stesso bene una somma molto maggiore rispetto a quella “pagata” all’origine della catena dall’“ebreo” spoliato; il quale si troverà avvantaggiato perché riavrà il bene al prezzo originario, minore rispetto a quello al quale si sono sobbarcati i poveri “ariani”. Ed ecco la soluzione:

“Ove gli immobili di cui viene chiesta la retrocessione siano stati oggetto di successivi trasferimenti in dipendenza dei quali le somme pagate all’atto di essi siano state maggiori di quelle corrisposte agli antichi proprietari dall’Ente di gestione e liquidazione immobiliare ai sensi del regio decreto-legge 9 febbraio 1939, n. 126, e limitatamente a quanto di tali maggiori somme risulti dai pubblici atti di compravendita, l’ultimo acquirente avrà diritto al rimborso della maggiore somma pagata che dovrà essere effettuato da colui dal quale comprò e cosí di mano in mano fino a giungere all’Ente di gestione e liquidazione immobiliare”;

con una “cautela”:

“Ogni contestazione sulla reale misura di tale differenza risultante da atto pubblico è esclusa, comunque proposta”

cautela che verrà, peraltro, rimossa con il decreto legislativo del Capo dello Stato n. 801 del 31 luglio 1947, art.1.

Una “soluzione” - lo si vede bene - finalizzata a tranquillizzare i beneficiari delle spoliazioni degli “ebrei”, a tenerli al riparo da ogni conseguenza patrimoniale ed economica dell’“abro­ga­zione” delle leggi razziali. Una soluzione destinata a prevedibili strascichi giudiziari intorno ai quesiti piú singolari, uno per tutti: il primo acquirente del bene tolto dall’Ente all’ebreo non finirà, lui, con il rimborsare i maggiori prezzi del bene nei successivi passaggi di proprietà? O chiederà anche lui - ma non si saprebbe a quale titolo - un “rimborso” all’Egeli? e l’Egeli pagherà di suo? O, alla fine, sarà l’ebreo a dover pagare la lievitazione del prez­z­o del bene, trasferimento dopo trasferimento? La logica complessiva della norma “antirazziale” si rivela francamente e nemmeno tanto paradossalmente “razzista”. Essa, infine, nasconde un preconcetto radicato allora ed oggi: l’innocenza dell’“uomo comune” rispetto alle brutalità razziste del regime, la sua estraneità agli eventi, il suo separato procedere nel bel mezzo di un massacro; dunque, non andrebbe, non va, disturbato piú di tanto. Con queste torbide ambiguità sarebbe proseguito il processo di “riparazione” nei confronti degli ebrei.

L’art. 7 del decreto legislativo del ’44 si occupa di apparenti dettagli: l’“ebreo richiedente la retrocessione di un bene immo­bile” può trovarsi al cospetto di una ipoteca o della trascrizione di un precetto; la paga lui, “trattenendo” dalla somma che deve per la retrocessione “la quota rappresentata dalla formalità ipotecaria”. Entra in ballo il notaio e si aprono scenari burocratici perversi.

E se l’attuale proprietario dell’immobile tolto all’ebreo ha “arrecato migliorie all’immobile”, che si fa? ci rimette lui le spese? Art. 8 del decreto legislativo: l’attuale proprietario

“avrà diritto a conseguire dal richiedente [dall’ebreo che rivuole l’immobile che gli fu tolto] il prezzo delle migliorie arrecate all’immobile, nella minor somma tra lo speso ed il migliorato”;

dove “lo speso” è quello che l’attuale proprietario riesce a documentare (con quanti artifici è facile immaginare) e il “migliorato” è la diversa funzionalità estetica e strutturale dell’immobile che ne fa una cosa di maggior pregio e di maggior valore economico. Ancora una volta, la logica del decreto è asetticamente civilistica: come è per molti aspetti giusto che sia quando si tratti di locazioni, di comodati e di altre forme di esercizio del diritto di proprietà nonché di “parità” tra i contraenti, non certo di alienazioni imposte dalla minaccia di un campo di concentramento o di una camera a gas. Beninteso: la norma “consente” contestazioni da parte dell’ebreo “sull’ esi­sten­za e sull’importo delle migliorie” e impone che la conte­stazione non fermi la retrocessione dell’immobile “senza diritto di ritenzione da parte del retrocedente”; insomma, si vedrà “nelle sedi opportune”, ma intanto l’immobile deve tornare all’ebreo. Un colpo d’ala immediatamente attutito: il “retrocedente” (l’at­tuale proprietario dell’immobile) “avrà privilegio sull’immobile. Il conservatore delle ipoteche annoterà di ufficio tale privilegio nella nota di trascrizione dell’atto di trasferimento”. Bisognò essere irremovibilmente “ebrei” per sostenere questo ulteriore e “laico” calvario nelle strettoie della legge.

Sulla falsariga dei principi fin qui evocati è strutturato l’art. 12 del decreto legislativo del ’44, relativo alla “retrocessione” delle aziende.

“I cittadini titolari di una azienda individuale o i soci illimitatamente responsabili di una società non azionaria che, a suo tempo, operarono, a norma dell’articolo 58 del regio decreto-legge 9 febbraio 1939, n. 126, l’alienazione della azienda per atto pubblico, possono richiedere la retrocessione della azienda restituendo i titoli nominativi di consolidato da essi ricevuti in pagamento del prezzo e che saranno svincolati nel termine di un anno dalla domanda di retrocessione dell’azienda. Lo Stato rimborserà al retrocedente i titoli di consolidato in questione al loro prezzo di emissione”.

Anche qui, il problema: e se il “nuovo proprietario” ha, nel frattempo, “migliorato” l’azienda, chi se ne avvantaggia, l’ “ebreo” che ne fu spoliato? No di certo:

“Nel caso di miglioramenti apportati alle aziende, coloro che proporranno la domanda di retrocessione, saranno tenuti a versare il corrispettivo, se concordato; in caso invece di contestazioni intorno alla sussistenza ed alla misura dei miglioramenti esse sono devolute alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, ma la loro proposizione non sospende l’obbligo della immediata consegna dell’azienda”.

Anche qui, una particolare attenzione agli interessi del “nuovo proprietario”, soggetto per definizione incolpevole:

“Il richiedente le migliorie [e cioè il “nuovo proprietario” che deve restituire l’azienda] che abbia formulato la richiesta ai sensi dell’articolo 8 avrà privilegio sull’azienda e la relativa annotazione dovrà essere fatta nella cancelleria del Tribunale competente e nella nota di trascrizione dell’atto di trasferimento, se l’azienda comprende proprietà immobiliari”;

ed ancora, a scongiurare improvvide iniziative dell’“ebreo reintegrato” nei suoi diritti:

“Sono improponibili le domande per rivalsa di danni per fatti verificatisi nella gestione normale della società”.

Insomma: una serie di facoltà riconosciute alle vittime delle persecuzioni razziali, irretite in una selva di condizioni e di adempimenti procedurali a dir poco vessatoria ed umiliante: si pensi all’immobile “gravato” da ipoteca, all’azienda oggetto di privilegio a favore del “retrocedente” il quale, avendo tenuto per sé l’immobile e l’azienda mentre il proprietario ebreo perdeva anche se stesso nel labirinto delle persecuzioni, si andava dolendo di aver “migliorato” e l’immobile e l’azienda e di vedersela togliere d’un tratto a causa di una imprevista “svolta politica” che faceva dell’ebreo un suo pari.

L’art. 14 del decreto legislativo del ’44, inaspettata brutalità in un contesto complessivamente reticente e comunque beneaugurante nella prospettiva di una leale legislazione “ripa­ratoria”, afferma un principio ed una regola degna dei peggiori “precedenti” razzisti:

“Per tutti i contratti di alienazione di beni immobili, sia a titolo gratuito che oneroso, pei quali vi sia la prova incontestabile che il cittadino colpito dalle leggi razziali s’indusse all’alienazione per sottrarsi all’applicazione delle leggi stesse con la riduzione della propria quota di disponibilità degli immobili, lo stesso avrà diritto di esercitare, nel termine di un anno dalla conclusione della pace, la relativa azione di annullamento. La prova di cui sopra può risultare da scritture private anche non registrate. La registrazione avverrà con la tassa fissa di lire 20 (venti). Il termine suindicato è stabilito in deroga all’articolo 1442 Codice civile”.

La norma evoca questa ipotesi (di fatto, amplissimamente verificatasi): il “cittadino italiano dichiarato di razza ebraica o considerato di razza ebraica” viene “colpito dalle leggi razziali”; egli, dunque, non può mantenere nella sua disponibilità se non una parte definita del suo patrimonio; allo scopo di salvare il piú possibile il suo patrimonio, il cittadino si determina ad alienarne, “a titolo oneroso o gratuito”, una parte, cosí sperando di tenere per sé l’intera quota disponibile. Cade il fascismo, l’ebreo si fa uguale a tutti gli altri cittadini italiani; dunque, la legge gli consente di chiedere l’annullamento di quelle alienazioni. Potrebbe finire qui. Ed invece, la “nuova legge” del ’44 si premura di frenare gli entusiasmi e fissa condizioni ben precise perché l’annullamento delle alienazioni ci sia:

- l’azione di annullamento dovrà essere esercitata “nel termine di un anno dalla conclusione della pace”; come a dire: elabora il tuo lutto al piú presto, agisci qui ed ora, raccogli le tue cose, la tua memoria e i tuoi dolori e mettili da parte; risolvi questa questione, risolvici questa questione;

- la prova che “il cittadino colpito dalle leggi razziali s’indusse all’alienazione per sottrarsi all’applicazione delle leggi stesse con la riduzione della propria quota di disponibilità degli immobili” dev’essere “incontestabile”; dove si impone la prova di un grappolo di cose: che l’alienazione fu fatta “per sottrarsi all’applicazione delle leggi razziali” (e come si prova? si capisce che fu fatta per questo, ma come si prova?); che il tentativo di “sottrarsi all’applicazione delle leggi razziali” portò in sé un ulteriore, preciso obiettivo: quello di non far “ridurre la propria quota di disponibilità degli immobili” (non basterebbe, dunque, che questo risultato costituisse una conseguenza oggettiva dell’alienazione dell’immobile, bisognava che proprio quello fosse stato il risultato finale e voluto dell’alienazione);

- ed infine: la “prova” di tutto questo, nulla escluso, dev’essere “incontestabile”; beninteso: non deve essere “non contestata”, certa nel merito, non approssimativa, non indiziaria: addirittura “non contestabile”, immediatamente visibile come inattaccabile in sé, anche prima e senza un tentativo di contestazione; deve trattarsi di una prova che “parli da sé”, che escluda il contrario di sé nella forma, nelle parole, nel documento, nella voce, in natura.

Si capisce perché non furono in molti, tra gli ebrei, ad avven­turarsi in cimenti di questa fatta e perché la stessa legislazione “ri­pa­ra­trice” si è protratta fino a lambire i nostri giorni. Concetti di quel genere, buttati nelle aule di giustizia, sono in grado di sostenere il lavoro di generazioni di giuristi e di far perdere ogni traccia della “cosa” di cui si tratta: parlavamo dei campi di concentramento, delle camere a gas.

 

3.

L’interminabile processo di reintegrazione

dei perseguitati razziali.

L’elenco delle leggi, dei decreti, degli atti amministrativi che l’Italia postfascista e repubblicana ha prodotti nello sforzo di cancellare dall’ordinamento le tracce della legislazione razziale è davvero infinito.

Il dato certifica due cose: la penetrazione della legislazione raz­ziale fascista fin negli interstizi meno accessibili dell’or­di­namento; la sostanziale discontinuità del legislatore repub­blicano, spesso la sua superficialità, nel portare a compimento un’opera che mille ragioni qualificavano come indifferibile.

L’intera produzione legislativa postfascista e antifascista ruota attorno al tentativo di pervenire ad un sostenibile punto di equilibrio tra l’esigenza evidente di giustizia nei confronti degli ebrei (ma non solo degli ebrei) e l’“opportunità” politica di non alterare in profondità gli as­set­ti lavorativi, a tutti i livelli, e patrimoniali costituitisi nel “vuoto” lasciato dagli ebrei (ma non solo dagli ebrei) emarginati, perseguitati e “spoliati” dei loro diritti e dei loro averi.

Basti pensare all’immenso problema della riammissione degli ebrei (ma non solo degli ebrei) nelle università, negli uffici pubblici, nelle Forze armate, delle carriere distrutte tutte da “ricostruire” nel contesto di una assetto ricompostosi immediatamente sull’onda delle leggi razziali.

L’enormità del problema portò, piú di cinquant’anni dopo la caduta del fascismo, il 1° dicembre del 1998 all’istituzione della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati.

Il termine per la conclusione dei lavori, piú volte prorogato, fu definitivamente fissato al 31 aprile 2001.

L’articolo 2 del decreto del Presidente del consiglio istitutivo della Commissione previde:

“i risultati dei lavori della Commissione saranno presentati, entro sei mesi dall’insediamento, al Presidente del Consiglio dei ministri”.

Il “ritardo” di quasi due anni nella conclusione dei lavori, peraltro formalmente autorizzato, dimostra due cose ben precise:

che l’iniziativa in sé, benché opportunamente intuita come di rile­van­tissimo interesse pubblico, aveva in qualche modo sottovalutato l’entità del fenomeno (“le vicende”) da esaminare e da “ricostruire”; che la stessa Commissione si venne a trovare al cospetto di una mole di fatti e di dati, anche di difficile reperibilità, sui quali evidentemente non si era sviluppata, nel corso di oltre cinquant’anni, un’adeguata ricerca ed un proporzionato approfondimento.

Non a caso, il Rapporto generale conclusivo della Commissione tenne a sottolineare:

“Se sugli aspetti storici, giuridici, etico-morali della persecuzione antiebraica e delle leggi razziali esiste un’ampia bibliografia, non può dirsi lo stesso per le ricadute patrimoniali, ove si eccettuino alcune iniziative di studio circoscritte ad alcune aree territoriali”;

e ancora, a conferma della inesplorata vastità dello specifico tema di indagine (l’acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati):

“I provvedimenti che - dopo l’avvento della politica razziale inaugurata nel 1938 dallo Stato fascista - furono presi in Italia contro gli ebrei, possono cronologicamente distinguersi in due grandi categorie, a seconda che precedettero o seguirono la data dell’armistizio Badoglio (8 settembre) con la conseguente occupazione armata dell’Italia da parte degli eserciti del Reich e la costituzione della Repubblica sociale italiana.

Per quanto riguarda il primo periodo, le norme emanate in materia dal Governo italiano del tempo, sia con leggi che con decreti ed anche non di rado a mezzo di circolari ministeriali, pur formando oggetto di raccolte, di studi, di pubblicazioni, sono poco note proprio per quanto attiene alla loro applicazione. Per quanto riguarda il secondo periodo, oltre ai provvedimenti della Repubblica di Salò, non possono essere dimenticati quelli, gravissimi, disposti dai Comandi germanici in esecuzione di ordini partiti da Berlino. […] E ciò senza valutare le scorribande dei manipoli fascisti, dei nuclei nazisti e delle autorità tedesche delle zone di occupazione che - al di fuori di ogni copertura legale – operarono vere e proprie razzie e ordinarono sequestri gratuiti per gran parte dei quali non fu successivamente possibile ottenere il recupero”.

A dispetto, tuttavia, delle segnalate difficoltà d’indagine, il quadro complessivo tracciato dalla Commissione, benché “limitato” alle conseguenze propriamente patrimoniali della politica razziale del fascismo, risultò deprimente:

“[…] la vastità e la ampiezza delle spoliazioni emerge con assoluta evidenza prendendo atto della impressionante produzione legislativa ed amministrativa - centinaia e centinaia di provvedimenti - del periodo 1938-43 e del periodo 1943-45 ma ancora piú dei quasi 8.000 decreti di confisca emanati a seguito della legislazione della Repubblica sociale Salò. Non fu risparmiato nessuno: né i ricchi, né i poveri, né i commercianti, né le aziende industriali, né chi aveva pacchetti azionari, né chi disponeva di un modesto conto bancario. Nei decreti di confisca viene elencato di tutto: pezzi di argenteria, oggetti personali sbattuti negli odiosi elenchi di confisca con sfacciataggine tale da indurre qualche autorità a disporre che si avesse maggiore sobrietà nella pubblicazione degli elenchi”.

Naturalmente - lo si è ripetutamente rilevato nel corso di questo lavo­ro, a segnalarne uno dei limiti - la legislazione razziale del fa­scismo fu “superata” in peggio dall’amministrazione (nell’ accezione piú lata, magistratura compresa), l’amministrazione dai singoli funzionari, i funzionari dagli speculatori e dai delatori.

“Molti potrebbero essere gli esempi per dare testimonianza di metodi e comportamenti persecutori, se possibile piú aggressivi di quello che le stesse disposizioni legislative e amministrative consentivano; di atteggiamenti di servilismo; di applicazione formalisticamente rigorosa delle norme, solo raramente accompagnate da un minimo di umana solidarietà. […] penso ad alcuni capi di provincia – notoriamente non piú prefetti di ruolo ma personaggi legati al regime - che, con zelo degno di miglior causa, emanarono provvedimenti di sequestro prima ancora dell’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943 ed evidentemente ancor prima del decreto legislativo del duce del 2 gennaio 1944;penso ad altri capi di provincia che procedettero al sequestro in base agli accertamenti di proprietà da essi compiuti, costituendo anche Uffici e Commissariati beni ebraici [i quali] agirono con struttura parallela all’Ente appositamente creato anche per la gestione dei beni ebraici (Egeli): […] penso ai ministeri che si dichiararono disponibili ad elargire compensi a delatori che avevano segnalato luoghi dove erano stati nascosti beni di proprietà ebraica; penso ancora all’assurda disposizione postbellica di far ricadere sui proprietari ebrei l’onere delle spese di gestione per l’amministrazione di beni già confiscati da leggi ‘razziali’ peraltro successivamente dichiarate nulle”.

La discriminazione e la persecuzione degli ebrei non fu “solo” un fatto “formale”, un fatto insomma che - pur nella sua brutalità - potesse essere “inteso” dalla collettività come in qualche modo “previsto dalla legge”; fu anche l’atto, il gesto, la furbizia mercantile del singolo e di interi ceti sociali che preferirono non avvedersi della insostenibilità ontologica delle leggi e ci aggiunsero del proprio. Di qui, anche, l’estrema difficoltà di una ricognizione storica della discriminazione quale fu, l’elaborazione di un programma “riparatorio” adeguato alle reali ingiustizie perpetrate, l’ambiguo “filo nero” che accompagnò i provvedimenti postfascisti tutti sensibili ai diritti del “terzo in buona fede” e alle “ragioni” del popolo inconsapevole e “innocente”.

Si guardi quanto stabilito dal Decreto legislativo luogotenenziale 5 maggio 1946, n. 393 (Rivendicazione dei beni confiscati, sequestrati o comunque tolti ai perseguitati per motivi razziali sotto l’impero del sedicente governo della repubblica sociale): uno tra i tanti. Vanno

“addebitate ai proprietari dei beni [l’ebreo spoliato], oltre alle spese per la normale gestione e per la conservazione dei beni, le somme erogate per la estinzione di debiti, per riparazioni e per incremento e miglioramento dei beni, ed in genere tutte le spese che i proprietari avrebbero dovuto sostenere se avessero conservato il godimento dei loro beni, nonché i compensi dovuti ai gestori, che saranno liquidati nella misura strettamente necessaria alla normale gestione”

e

“qualora la gestione presenti un saldo passivo a carico dei proprietari dei beni, il credito relativo, se non soddisfatto, ha privilegio sui beni restituiti con preferenza su ogni credito, ancorché privilegiato ” [art. 8 e 9],

e non se ne potrà non trarre il convincimento che anche per il “legislatore” del 46 l’ebreo da reintegrare fosse “parte uguale” all’Ente espropriatore e finanche all’ “ex ariano” subentratogli nella proprietà dei beni.

Si guardi la richiesta - tra le tante - di Abramo Tedeschi al Monte di credito di Pegno del 25/7/1949:

“La presente per pregarvi di volermi indennizzare al piú presto possibile della perdita da me subita per la mancanza dei seguenti mobili ed oggetti, sequestrati a suo tempo e asportati durante la mia assenza dal mio appartamento: 2 letti con reti, 1 mobile, 1 coperta verde, 1 paio tendine, 1 tappeto da tavolo, 2 vasi da notte”

e la risposta dell’Egeli:

“Ella è invitata a pagare il saldo di £. 5473, saldo dovuto in dipendenza della gestione dei beni a suo tempo confiscati a Suo danno, in applicazione dei provvedimenti adottati sotto l’imperio delle abrogate leggi razziali. Il tutto oltre agli ulteriori interessi”,

e non si potrà non convenire che la “pochezza” degli episodi, in un mare sterminato di corpose spoliazioni e di “ripa­razioni”asfittiche e controverse, salda d’un colpo la “legalità postfascista” a quella fascista.

O, ancora, la lettera di Arrigo Vita all’Uch del 1948:

“Vi segnalo che l’Istituto San Paolo di Torino, delegato dall’Egeli, mi ha richiesto la somma di £. 18.650 per la gestione del mio alloggio durante il periodo nazifascista. Ho rifiutato di pagare ritenendo che l’Egeli abbia avuto la funzione di campo di concentramento per i nostri beni”.

Gli aspetti materiali della spoliazione dei beni degli ebrei e della loro restituzione sono certamente importanti ma essi non ne costituiscono l’aspetto essenziale. Prima di essere un affare di danaro, la spoliazione è stata una persecuzione il cui obiettivo finale era l’annullamento morale e quindi lo sterminio. Nessuna storia saprà raccontare ciò che uomini e donne hanno vissuto quotidianamente con il conseguente peso di angoscia, di umiliazione e di miseria.

Le “conclusioni” alle quali pervenne la Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati furono, non a caso, insieme confortanti e allarmate. Come a dire che ad oltre cinquant’anni dall’abrogazione della “legislazione razziale”, il problema si pone ancora. Il dato allarma di per sé.

La “quantificazione del danno” e il dolore.

“Nello svolgimento dei lavori, la Commissione ha sempre avvertito la necessità di dare una misura quantitativa e qualitativa alle spoliazioni avvenute, nella consapevolezza che qualunque disamina storico-politica, qualunque semplice anche se esaustiva ricostruzione normativa, qualunque analisi sia pure minuta dei meccanismi delle spoliazioni sarebbero risultate certamente utili ed importanti ma solo limitatamente sufficienti se non avessero contribuito a dare una dimensione ed uno spessore al danno subito da un gruppo di italiani e di stranieri dolorosamente colpiti dalle “leggi razziali” italiane.

L’esigenza di dare un riscontro quantitativo al fenomeno indagato è stata sollecitata d’altra parte dalla impressionante vastità delle spoliazioni, avvenute nell’arco di ben sette anni, dovute a disposizioni legislative nettamente differenziate dei due periodi 1938-1943 e 1943-1945 e comunque decisamente piú gravi nel secondo periodo”.

Tecniche di spoliazione.

“Analizzando sinteticamente le varie tipologie di spoliazione ed una serie di risvolti economici della legislazione persecutoria, la Commissione ha considerato rilevanti ai fini della propria indagine:

– le varie limitazioni di proprietà stabilite dalla legislazione 1938-1939 con il conseguente esproprio da parte dello Stato delle quote “eccedenti”;

– i sequestri avvenuti in base all’ordinanza del 30 novembre 1943, n. 5, di Buffarini Guidi;

- le confische di tutti i beni mobili ed immobili conseguenti al decreto del duce del gennaio 1944;

- i furti, i saccheggi, le razzie avvenuti in varie parti del Paese e ai posti di frontiera;

- il danno economico gravissimo per gli ebrei costretti a vivere in clandestinità per sfuggire alla deportazione;

- l’incalcolabile danno derivante dalle progressive limitazioni al lavoro ed alle attività professionali e imprenditoriali”.

Le cifre.

“Il conto degli immobili trasferiti all’Egeli ammontava [al 1939] comples­sivamente a £. 55.454.680,44.

Di non facile quantificazione sono i beni sottratti in forza di decreti emanati dai capi delle province a seguito dell’ordinanza del 30 novembre 1943. In molti casi - salvo che per quella parte di beni assegnata, in alcune città, alle banche delegate dall’Egeli e gestita quindi da quelle in regime sequestratario - si ebbe una gestione diretta o indiretta dei beni da parte dell’autorità prefettizia, spesso al di fuori di precisi meccanismi procedurali. Questo fenomeno interessò diverse province ed […]in modo particolare Firenze.

[…] può fondatamente ritenersi che i decreti di confisca siano stati, come risulta da una relazione dell’Egeli, almeno 7.847. Dalla schedatura analitica di 7.187 decreti reperiti risulta che l’operazione di confisca coinvolse 46 province, non meno di 8.000 cittadini ebrei e 230 ditte. Mancano i dati quantitativi dei 660 decreti non trovati.

Solo pochi decreti contengono riferimenti puntuali al valore dei beni e non è stato possibile pertanto elaborare una quantificazione attendibile del patrimonio confiscato e del conseguente danno. La relazione al bilancio dell’Egeli del 1945, infatti, non riporta il valore dei beni, ma solo calcoli relativi ai costi e ricavi derivanti dalla gestione. Può essere peraltro indicativa a questo proposito la relazione del ministro delle Finanze al duce del 12 marzo 1945. Questa forniva dati sul valore dei beni confiscati alla data del 31 dicembre 1944, quando l’invio dei decreti non era ancora ultimato e anzi mancavano molte province tra quelle piú importanti per numero di ebrei e per beni da essi posseduti, “a causa della complessità dei relativi accertamenti ai quali si stava peraltro provvedendo con la maggiore possibile accortezza e urgenza”. Si precisava che, per quanto riguardava il valore dei beni confiscati, lo stesso poteva essere precisato solo per alcune categorie mentre per altre, pur totalizzanti importi ingenti (mobilio, preziosi, biancheria, merci varie), dati sicuri potevano essere ottenuti solo in fase di realizzo.

Limitatamente alle confische eseguite fino alla fine del 1944, i depositi bancari in contanti ammontavano comunque all’importo complessivo di L. 75.089.047,90; i titoli di Stato a L.36.396.831 (valore nominale); i titoli industriali e diversi, valutati secondo il listino di fine dicembre, a L. 731.442.219. I beni immobili erano stati valutati in base ai criteri stabiliti ai fini dell’imposta sul patrimonio comportando, per i terreni, un totale di L. 855.348.608 e per i fabbricati di L. 198.300.003.

Non è invece quantificabile il danno subito a seguito di furti e saccheggi. […] Tenendo conto delle varie testimonianze raccolte, considerato che praticamente tutti gli ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case, valutato che taluni fiduciari non si rivelarono tali concorrendo all’opera di razzia, è realistico ritenere che il fenomeno assunse una dimensione assai vasta.

Al di là dei richiami normativi sui divieti di attività lavorativa, la Commissione non è stata in grado di quantificare i risvolti economici indotti dalle disposizioni in materia anche perché, nello specifico, non si concretava una forma di spoliazione di beni in senso stretto. Sarebbe risultato d’altra parte difficile pervenire ad una quantificazione complessiva del danno, ma appare assolutamente ovvio ritenere che questo fu ingentissimo poiché vennero meno le primarie fonti di reddito”.

Le restituzioni.

“La Commissione ha ritenuto di completare il proprio lavoro formulando indicazioni sulla successiva fase di restituzione dei beni. Se complessa e di non facile ricostruzione è stata la fase delle spoliazioni, ancor meno agevole è stata ed è una ricostruzione completa della fase delle restituzioni. A fronte, infatti, dell’imponente numero dei decreti di confisca sono stati rinvenuti solo pochi corrispondenti verbali di restituzione. Le restituzioni sono avvenute in seguito a singoli decreti di revoca o sulla base di disposizioni di carattere generale. Manca comunque una serie archivistica organica che attesti l’avvenuta restituzione dei beni confiscati o sequestrati che - in base alle disposizioni normative - doveva avvenire su domanda dell’interessato.

[…] per poter compiutamente riferire sul tema delle restituzioni si dovrebbe ricostruire la situazione dei beni sequestrati, per i quali le fonti individuate consentono di avviare una sia pur parziale indagine; conoscere il destino dei beni asportati con la forza o rubati; si dovrebbe illuminare la vicenda dolorosa di beni appartenuti a deportati, vittime di eccidi e che non ebbero la possibilità di reclamarne direttamente la restituzione; si dovrebbe approfondire il capitolo delle difficoltà con cui i legittimi proprietari poterono rientrare in possesso dei beni in presenza di un apparato pubblico e di una burocrazia che non sempre compresero la eccezionalità e la gravità della vicenda delle spoliazioni; si dovrebbe per contro approfondire quale peso ebbe il ricorso a forme risarcitorie di carattere generale come, ad esempio, i risarcimenti per danni di guerra.

La legislazione restitutoria, riparatoria e risarcitoria dell’immediato dopoguerra fu sufficientemente tempestiva, ma non esente da gravi limiti, come ad esempio nel caso del dcps 11 maggio 1947, n. 364, (“Successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l’8 settembre 1943, senza lasciare eredi successibili”) che si rivelò di fatto di assai difficile applicazione. Nel 1955 verranno estese ai perseguitati razziali le provvidenze stabilite a favore dei perseguitati politici mentre con L. 16 gennaio 1978, n. 17, si stabilisce che la “qualifica di ex-perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per legge oppure in base a norme e provvedimenti amministrativi anche dalla RSI intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalle avvenute notazioni di ‘razza ebraica’ sui certificati anagrafici”; peraltro ciò concerneva le persone e non i loro beni.

Nonostante le richiamate difficoltà; nonostante le accertate lungaggini; nonostante le interpretazioni spesso restrittive delle norme giuridiche da parte degli organi consultivi; nonostante gli inevitabili contenziosi nei casi in cui i beni immobili erano stati alienati, si ha motivo di ritenere che l’opera di restituzione dei beni a favore di beneficiari non scomparsi in deportazione fu quasi sempre completa per gli ex perseguitati che si attivarono in tal senso e limitatamente ai beni che non andarono razziati, dispersi o distrutti.

La mancata restituzione dei beni riguardò soprattutto quelli non reclamati dagli aventi diritto o dai loro eredi. In ciò influirono verosimilmente: l’ignoranza di proprietà appartenenti a parenti uccisi in deportazione; l’espulsione o l’emigrazione di ebrei che non ebbero piú occasione o motivo per curare i propri interessi; il peso della tragedia sofferta che influenzò negativamente l’azione di recupero di beni materiali. Questa fascia di mancate restituzioni non fu certo secondaria ma, in ogni caso, per quante restituzioni poterono avvenire, esse non annullarono le conseguenze economiche delle limitazioni di proprietà e delle spoliazioni ma ancor piú le sofferenze morali che ad esse si accompagnarono.

[…]                                                                      

Le proprietà espropriate in base alla legge del 1939 vennero retrocesse ai proprietari o, comunque, si addivenne a una definizione del contenzioso.

Relativamente ai beni sequestrati e confiscati nel 1943-1945, la cui restituzione fu affidata all’Egeli anche per la parte dei beni sequestrati, rimane da approfondire l’indagine per i beni sequestrati con gestione extra Egeli. È stata accertata, nel complesso, la mancata restituzione di un gruppo di beni mobili (gioielli, libretti di risparmio, certificati azionari, ecc.) per un valore complessivo di almeno L. 2.095.498 (anni 1943-1944), successivamente incamerati dallo Stato o, qualora non aventi piú valore, distrutti. È stata inoltre evidenziata una questione concernente beni confiscati rimasti in deposito presso le banche. […] Nello scarso carteggio dell’Egeli si menzionano un ammontare di “circa L. 4.000.000” di depositi in denaro e titoli di Stato e “n. 6.550 azioni industriali di valore imprecisato” già oggetto di confisca e “non reclamati” (con riferimento, parrebbe, al 1950) dai proprietari ebrei e detenuti dalle banche: al riguardo è necessario un approfondimento che possa comportare una compiuta ricostruzione delle successive evoluzioni della vicenda.

Sempre relativamente ai beni immobili e mobili sequestrati e confiscati nel 1943-1945, non è stato possibile quantificare l’ampiezza e il valore delle incompletezze nelle restituzioni: case rese senza mobilia, mobilia resa senza contenuto, oggetti di ogni tipo scomparsi, distrutti o deteriorati, beni venduti all’epoca a valori di stima assai ribassati, ecc.

Per tutti i beni gestiti, l’Egeli dopo la guerra ha chiesto ai perseguitati il pagamento delle spese di gestione sostenute dagli istituti gestori, destando le vivaci rimostranze dei perseguitati.

È stata accertata la vendita all’asta da parte dell’Arar (Azienda rilievo alienazione residuati) a beneficio dello Stato di oggetti d’argento per varie centinaia di chilogrammi, compreso almeno un gruppo di oggetti asportati a un ebreo.

Si è riscontrata una generale mancanza di documenti relativa ai beni sequestrati nelle dogane a ebrei che lasciavano la penisola.

Gli elementi raccolti indicano che non vi furono polizze che siano state liquidate (nel loro valore intero o di riscatto), forzosamente e definitivamente all’Egeli o ad altri enti della RSI.

Non è stata condotta un’indagine sistematica sull’eventuale presenza nei musei pubblici e privati di opere d’arte asportate a ebrei. La Commissione interministeriale per il recupero delle opere d’arte ha assicurato che di tale eventualità non vi è alcuna attestazione nella propria documentazione (“archivio Siviero”).

[…] rimangono da accertare due situazioni particolari: quella dei depositi presso la Cassa depositi e prestiti, “non reclamati” da ebrei, o loro eredi, deportati o emigrati e quella del risparmio postale.

Che altro?

 

“La Commissione raccomanda in particolare:

a) In materia di archivi

1. Che l’Archivio costituito presso la Commissione venga conservato unitariamente presso l’Archivio centrale dello Stato e posto celermente in consultazione favorendone quanto piú possibile l’accesso agli interessati e agli studiosi.

2. Che le Soprintendenze archivistiche curino che i responsabili degli Archivi pubblici e privati evitino di scartare documentazione concernente aspetti anche minori o semplicemente amministrativi della persecuzione degli ebrei o documentazione concernente altre minoranze anche se non perseguitate, favorendone la consultazione nello spirito delle nuove norme sulla protezione dei dati personali.

b) In materia di ricerche

Si raccomanda in particolare:

1. Che il Governo affidi ad un ufficio della Presidenza del consiglio l’incarico di dare continuità al lavoro della Commissione:

- raccogliendo documenti, corrispondenza e quanto perverrà ancora alla attenzione della Commissione dopo che la stessa avrà ufficialmente chiuso i propri lavori;

- mantenendo i rapporti con le amministrazioni dello Stato e con gli organismi pubblici e privati già a suo tempo interessati al lavoro della Commissione per integrare le informazioni acquisite (pubbliche amministrazioni, banche, assicurazioni) ovvero attraverso supplementi di indagine per i quali appaiono tuttora necessari taluni approfondimenti (risarcimento danni di guerra, risparmio postale e depositi presso la Cassa depositi e prestiti, investimenti azionari);

- promovendo una indagine piú circoscritta su quanto è accaduto ai beni degli ebrei nelle varie regioni dell’area mediterranea che tra il 1938 e il 1943 erano sotto il controllo italiano.

c) In materia di risarcimenti individuali

1. Che il Governo, anche alla luce delle risultanze emerse dal lavoro della Commissione e secondo modalità che riterrà piú opportune, renda sollecitamente possibili i risarcimenti individuali alle vittime di sequestri, confische e furti avvenuti negli anni 1938-1945 e nell’ambito della persecuzione antiebraica. E ciò in collegamento con i beneficiari aventi titolo e gli organismi che li rappresentano.

d) In materia di conservazione della memoria e di promozione educativa

1. Che le istituzioni pubbliche e private operanti nel settore culturale e scientifico sviluppino la ricerca storica sulla persecuzione antiebraica fascista e nazista in Italia;

2. Che il Governo, avvalendosi anche di strutture pubbliche e private già operanti in questo campo:

- sostenga esperienze didattiche e divulgative su tale tema ampliando questi interventi ai temi del genocidio e del razzismo dell’età contemporanea;

- sostenga tutte le iniziative che, anche attraverso la conservazione della memoria delle vittime della Shoà in Italia, operano per creare una coscienza civile ed una attitudine permanente e consapevole al rispetto dei diritti personali e sociali”.

Conclusioni, dunque, non prive di qualche compiacimento autorefe­renziale e comunque segnate dal limite dell’indagine delegata alla Commissione. Dentro al quale, i risultati del suo lavoro non possono che essere giudicati comunque utili.

Manca, nel Rapporto generale, un tentativo di risposta alla domanda “giuridica”: tutti “terzi in buona fede” gli italiani ariani che, estranei e distratti, occuparono però le case e le aziende degli ebrei? Manca una ricognizione non delle “spoliazioni” ma degli arricchimenti. Direbbe, la coscienza comune: tutti innocenti?

 

4.

Le “riparazioni” nelle aule di giustizia.

Si è piú volte sottolineato il ruolo fondamentale di gran parte della magistratura nella costruzione e nel mantenimento del nuovo ordine imposto dal fascismo. Sistematicamente interpreti fedeli e severi delle nuove leggi, spesso i giudici si fecero precorritori degli approdi legislativi piú illiberali. Non si sarà dimenticato che la “natura pubblicistica” del Partito nazionale fascista (e finanche degli squadristi) fu intuíto e affermato per via d’interpretazione in molte decisioni che videro anche nell’ultimo degli squadristi o nel piú periferico e onnipotente “federale” un pubblico ufficiale; né si sarà dimenticato che la Carta del lavoro fu letta dai giudici - da quelli piú in alto nelle gerarchie soprattutto e prima, molto prima, che lo stesso fascismo si determinasse a tanta definizione - come una sorta di fonte normativa sovraordinata a tutte le altre.

Le stesse leggi razziali passarono al vaglio dell’interpretazione restrittiva dei giudici.

Dei quali, infine, non può qui essere taciuto il ruolo di “filtro” strettissimo delle domande di riparazione nell’Italia postfascista.

Non è detto che si sia trattato di deliberata e persistente inclinazione politica e culturale dei giudici alla discriminazione; spesso, si trattò di una cosa peggiore: della comoda e indolore abitudine a sfuggire alla responsabilità ed al peso di penetrare nel “fatto”, nascondendosi invece nel comodo rifugio della “lettera” della legge.

In fin dei conti, la magistratura italiana, era sostanzialmente scampata ad ogni “epurazione”:

“Da quanto Togliatti dice e scrive negli anni di guerra e appena tornato in Italia, risulta che egli crede poco nella epurazione. Sa che essa è impossibile a tutti i livelli: a quello di massa, perché sarebbe una pazzia politica, da evitare da parte di chi vuole creare un grande partito in cui, per forza di cose, devono pure entrare gli ex fascisti subalterni; ad alto livello, perché il grande disegno la rende impossibile: non si può collaborare amichevolmente con il maresciallo Badoglio e servire il re Vittorio Emanuele III e poi chiedere la punizione dei dirigenti fascisti. La sola cosa fattibile è di ottenere l’allontanamento di quei dirigenti che hanno collaborato con i nazisti; ma, o vi hanno già provveduto i partigiani e i Comitati di liberazione, o si tengono nascosti in attesa di tempi migliori, o hanno già trovato alti protettori”.

Esempi della reticente prudenza dei giudici non mancano.

Si pose il problema: l’“ebreo discriminato”, quello cioè che, a dispetto della sua “razza”, era stato parificato all’“ariano” in considerazione di “speciali sue benemerenze” (agli occhi del fascismo), poteva, caduto il fascismo, invocare l’art. 14 del regio decreto-legge 20 gennaio 1944 n. 26 per chiedere l’annullamento di contratti di alienazione di beni immobili? Si rispose, per lo piú dai giudici e dalla Cassazione alla fine, che no, non poteva, dal momento che non si poteva ritenere “incontestabilmente” provato, e in realtà nemmeno “provabile”, che la vendita fosse stata imposta dalla necessità di sottrarre il bene alla confisca. I giudici (della Cassazione soprattutto) pensarono e scrissero che lo status di discriminato bastava ad escludere che rischio di confisca esistesse e che, dunque, l’alienazione del bene non poté che essere “libera”. In verità, la Repubblica sociale italiana aveva tolto di mezzo la figura del “discriminato”, non solo; la stessa legislazione razziale del “fascismo” monarchico aveva ben stabilito che il provvedimento di discriminazione avrebbe potuto essere in ogni momento revocato, ad “insindacabile” giudizio del ministro. Dunque, anche l’ebreo “discriminato” poté essersi determinato ad alienare il bene per scongiurare di vederselo togliere successivamente. Niente da fare: per i giudici, la legge del ’44 era chiarissima: l’annullamento dell’alienazione dell’immobile era consentita solo a chi fosse stato colpito dalle leggi razziali e si fosse determinato a togliersi il bene per scongiurare la riduzione della “quota disponibile” dell’immobile che gli sarebbe rimasta.

Naturalmente, nelle decisioni dei giudici non fece nemmeno capolino un tentativo di apprezzamento dello status del discriminato: perché gli fu concesso, quanti vantaggi ne trasse, se fosse giusto che costui continuasse a ricevere dalla legisla­zione razziale prima e da quella riparatoria dopo solo vantaggi, a nessun prezzo. Si sarebbe trattato di un terreno di analisi molto scomodo e accidentato; mille volte meglio stare alla “lettera” della legge. Mario Toscano si dichiara incline ad escludere che ci fosse, nei giudici, “un residuo di una qualche forma - sia pure inconsapevole - di ideologia antiebraica”; e ipotizza che l’atteggiamento dei giudici fosse influenzato dal fatto che nel caso al loro esame il cittadino che invocava l’annullamento dell’alienazione dell’immobile fosse un “ebreo discriminato perché fascista squadrista”. Ma anche questa benevola ipotesi, che nobiliterebbe la pigrizia dei giudici, non è sostenuta da alcuna carta né da alcuna parola.

Terreno di vere e proprie scorribande interpretative fu quello dell’accertamento della “buona fede” del terzo acquirente dell’immobile venduto dall’ebreo colpito dalle leggi razziali. Anche lí, la magistratura dette, in genere, risposte spietatamente formalistiche: la “prova della malafede” dell’acquirente diven­tando, cosí, una prova diabolica, insomma impossibile. Biso­gnava dimostrare che l’acquirente sapesse di comprare da un ebreo. Come a dire: che ne sapeva, il popolo italiano, di ebrei e non ebrei: tutti in buona fede, tutti innocenti.

Si pose il problema: dev’essere riassunto il dipendente ebreo licenziato prima della formale approvazione delle leggi razziali? No, risposero i giudici - i quali pure in tema di riassunzioni non furono “restrittivi” quanto lo furono nelle controversie patrimoniali - dal momento che quel licenziamento non fu imposto da una norma di legge. Dove l’ostentata “separatezza” dei giudici dagli eventi della storia si fa francamente insop­portabile.

Si dette il caso paradossale di un ebreo che s’era visto confiscare i suoi beni; i beni erano andati dispersi, il beneficiario del sequestro era sparito alla fine della guerra. L’ebreo citò in giudizio lo Stato per ottenere il risarcimento del danno subito. I giudici: lo Stato non deve alcunché perché il provvedimento di confisca non aveva più efficacia; sí, il danno l’ebreo l’aveva subito ma non toccava allo Stato risarcirlo perché lo Stato, che aveva emesso il provvedimento di confisca, l’aveva, poi, reso inefficace. Non era caduto invano, il fascismo. Una superba finzione degna della cultura giuridica fascista.

Si accesero dibattiti giudiziari intorno alle categorie “giuridiche” della “quota consentita”, della “quota eccedente”, della “quota disponibile”, dello “stato di bisogno” (inteso in senso strettamente economico, naturalmente, mai in senso psico­logico).

“Utilizzando i repertori della giurisprudenza italiana relativi ad un arco temporale compreso tra il 1945 e il 1964, […] dall’ analisi di ottantacinque vicende processuali […] emerge che il 52% di esse ebbe un esito favorevole agli ex perseguitati, contro un 48% di verdetti negativi. Appare poi confermata la diva­ricazione nei comportamenti delle diverse corti giudicanti: nelle sentenze emesse da Tribunali e Corti d’appello prevalgono infatti giudizi a favore degli ebrei, mentre la Cassazione pronunciò verdetti che li penalizzarono nel 55% dei casi

In qualche misura benevolmente si è detto:

“ Che sia difficile dare un giudizio univoco sul comportamento della magistratura si può dedurre anche dal fatto che abbiamo testimonianza di verdetti negativi emessi da un giudice di chiari ideali antifascisti come Luigi Bianchi d’Espinosa e verdetti positivi pronunciati da un magistrato senza dubbio compromesso con la politica razziale del regime, quale Ondei, autore nel 1941 di articoli sulla rivista Diritto razzista”.

Epilogo riduttivo della portata enorme del razzismo fascista e delle timidezze postfasciste: parlavamo di discriminazioni, di campi di concentramento, di camere a gas…

 

 

Ultimo aggiornamento Mercoledì 27 Gennaio 2021 21:02
 
Condividi